Assassinio a S. Valentino (finalisti)





14 Febbraio 2013 ore 7.00. Los Angeles, appartamento del Vice Procuratore Keena Walker.
Pallida, con un bicchiere di brandy serrato in una mano. Avvolta in un'aderente vestaglia di seta grigio perla, che le copriva con sensualità le curve morbide. Il Vice Procuratore, Keena Walker, fissava con apparente freddezza, il corpo senza vita al centro del suo salotto.
La scientifica era già al lavoro per i rilievi. Un susseguirsi di professionisti che avevano rivoltato l'appartamento, in cerca d'impronte, fibre e qualunque prova potesse avvalorare la sua testimonianza.
Non era stata lei a uccidere il suo ex marito.
Ora, aspettava che il detective, incaricato del caso, arrivasse per interrogarla. Conosceva la prassi, sapeva ogni passo che sarebbe seguito da quando si era alzata e lo aveva trovato riverso sul tappeto. Senza toccare nulla aveva telefonato al 911, usando un lembo della vestaglia, per non rovinare eventuali tracce sulla cornetta.
Poi, si era ritirata in camera da letto, in attesa dell'arrivo degli agenti.
Continuava a guardare il cadavere di Edward B. Callen, avvocato penalista di dubbia fama. L'uomo che aveva sposato in un momento di debolezza, da cui era divorziata ufficialmente da sei mesi. L'infame che l'aveva usata, tradita, umiliata e per poco non le aveva rovinato la carriera.
Morto. Nel suo salotto. Senza che lei si fosse accorta di nulla. Tutto sembrava puntare contro di lei. Opportunità e movente.
Lo scorrere della portafinestra la fece voltare di scatto. Sull'uscio spalancato, che dava sulla terrazza, apparve il tenente della Omicidi J.S. Kendrick. Come ci era finito era un mistero. Era sicura che non le fosse passato davanti. Non era un tipo che passava inosservato.
Lo osservò entrare con la solita arroganza, il padrone del mondo. Odiava quella sua snervante sicumera. Mai una volta che un accenno d'insicurezza lampeggiasse in quegli occhi verde smeraldo. Freddi, analitici, osservavano il prossimo fin dentro l'anima, scavava sino a che ogni più recondito segreto non veniva alla luce. Guai ad averlo come avversario. Keena ne sapeva qualcosa, le loro liti erano leggendarie. Eppure, ora che era lì come incaricato del caso, quel macigno che le si era posato sul cuore alla vista del cadavere di Edward, era più leggero.
J.S. Kendrick era un bastardo senza cuore, ma un poliziotto eccezionale. Lui non cercava un colpevole, ma la verità. Qualunque essa fosse.
«Walker, a San Valentino le donne di solito ricevono fiori, cioccolatini, non cadaveri». Esordì, senza aggiungere altro. Poi si rivolse al medico legale. «Gracie, dolcezza. Quando fai il tossicologico al nostro trapassato controlla ogni genere di narcotico. E visto che ci sei, fai un prelievo a Walker per le stesse sostanze». Si passò una mano tra i folti capelli biondi, che divennero ancora più scompigliati, mentre s'inchinava accanto al morto e scostava il telo per esaminarlo.
«J.S. tesoro, non è il caso di fare certe macabre battute». Lo redarguì la patologa con fare materno. La dottoressa Grace Sullivan, gli diede uno scappellotto sul collo, notando l'indifferenza con cui aveva reagito alle sue parole, ricevendo in cambio un sorriso, da colui che considerava come un figlio.
«Dai Gracie. Sono sicuro che a Walker non dispiaccia. Vero?». Keena odiava quel sorriso strafottente, l'aria da so tutto io, il fascino da canaglia che sembrava irretire le donne. Biasimava se stessa per trovarlo attraente, per bramare di sistemargli quella capigliatura dorata, sempre arruffata, di nascondere il viso nel suo torace muscoloso, quando era triste o spaventata. Come adesso, in cui il terrore di essere incolpata per un crimine che non aveva commesso le stava torcendo le budella.
Detestava quell'uomo, perché lo desiderava come mai aveva voluto suo marito.
«Dipende di cosa non devo dispiacermi». Non seppe trattenersi Keena.
Era normale comportarsi in quel modo davanti alla morte, serviva a esorcizzarla, a rimanere concentrati e freddi. Farsi prendere dai sentimenti in quei frangenti, anche se di pietà, portava a commettere errori che potevano costare cari: come l'assoluzione di un assassino o la condanna di un innocente. Però quando si era la vittima della situazione, era diverso. Ora si rendeva conto che a volte si agiva senza alcuna sensibilità. In futuro si sarebbe comportata diversamente.
J.S. la fissò con ironico stupore, cercava ogni sistema per metterla in ridicolo o in difficoltà, anche in un'occasione drammatica come quella. L'astio che covavano l'uno verso l'altra era ormai una leggenda nel dipartimento di Polizia e nella Procura. Poteva sembrare meschino ma, riuscire a incrinare quella facciata impenetrabile, era diventata un'ossessione.
Quella donna era fredda come il ghiaccio. Raffinata anche con i lunghi capelli scomposti, neri come una notte senza stelle; senza trucco a rendere più profondi e misteriosi quei glaciali occhi d'argento. In poche parole, bellissima.
Sin da quando era entrata nella sua visuale, era stato come se un vulcano gli fosse esploso nelle vene. Il sangue pulsava e bruciava, si concentrava nel suo cazzo che non voleva saperne di stare calmo. Entrava in modalità erezione e il dolore lancinante lo accompagnava finché non spariva dalla sua vista. Era costretto a portare delle giacche che coprivano l'inguine per evitare che si notasse quella condizione umiliante.
Diventava aggressivo, e non riusciva a non trattarla con durezza. Come in quel momento. Era già duro al solo vederla con quella nuvola di seta che accarezzava le curve sinuose. Era un tormento.
Ma ciò che lo faceva incazzare era sapere che qualcuno le era entrato in casa, per incastrarla. Keena era stata in balia di un assassino, sola, indifesa e inconsapevole.
Un trambusto fuori dalla porta gli fece distogliere lo sguardo dalla donna.
«Sergente Mallory, cosa succede lì fuori?». J.S. non finì di parlare che Jonathan Burton irruppe nella sala. Lo vide fermarsi pallido davanti al cadavere dell'amico e socio.
«Keena. Non dire nulla. Da adesso mi occupo di tutto io». Esordì con tono tronfio che una volta gli aveva fatto guadagnare un pugno nello stomaco. L'avvocato era ancora furioso per non essere riuscito a trovare nessuno disposto a testimoniare contro J.S.
«Jonathan cosa ci fai qui?». Per nulla impressionata dalla performance da cavaliere che accorre in salvataggio della damigella in pericolo.
«Perché non mi hai chiamato subito? Sei un avvocato dovresti sapere a cosa puoi andare incontro». Burton non si lasciò impressionare dalla glaciale accoglienza.
«Sono un Vice Procuratore. Il mio primo dovere è verso la vittima, chiunque essa sia. Trovare il colpevole è imperativo e tocca alla polizia indagare». Keena non era intenzionata a permettere che all'uomo di prendere il comando di quella situazione. Non si fidava di lui esattamente come non si era fidata dell'ex marito.
«Polizia! Keena, sei impazzita? Ti rendi conto che il Tenente Kendrick ha richiesto espressamente di occuparsi di questo caso. Non ti domandi il perché? Finalmente potrà vederti nella polvere. Rovinare la tua carriera e farti finire dietro le sbarre». Le parole colme di disprezzo fecero infuriare J.S. che strinse i pugni per resistere alla tentazione di spaccargli la faccia questa volta.
Il bastardo l'avrebbe pagata cara per l'insulto.
Prima che potesse dire una parola, Keena Walker si avvicinò all'avvocato e lo schiaffeggiò senza esitazione, nella sala calò un silenzio esterrefatto. Nessuno dei presenti osò fare una battuta tutti gli occhi erano incollati in quella scena sospesa nel tempo, conoscevano il temperamento irascibile del Vice Procuratore, guai a finirle tra i piedi. Era uno schiacciasassi.
«Ora vattene. Non ho chiamato un avvocato. E se dovessi averne bisogno non saresti di certo tu. Hai appena insultato un poliziotto, un uomo che potrà anche avere un carattere insopportabile, ma sono contenta che sia lui a occuparsi di questo caso, avrò la sicurezza di non finire in prigione. Il Tenente prende sempre il colpevole e non accusa mai un innocente. Ora, se non ti dispiace qui abbiamo da fare. Gracie, non dovevi farmi un prelievo per un tossicologico?». Solo quando si rivolse alla patologa il tono divenne caldo e gentile. Keena vide la dottoressa sorriderle compiaciuta per poi prenderla sottobraccio e insieme si diressero in camera da letto.
J.S. notò che l'avvocato la seguiva con uno sguardo colmo d'odio, quando la porta fu chiusa si diresse con furia verso l'ingresso senza dire una parola. Umiliato. Era rimasto senza parole. Keena si era schierata dalla sua parte. L'opinione che aveva di lui non era così negativa come credeva.
La fiducia che lui non l'avrebbe lasciata condannare, era intenzionato a non tradire quella incredibile fede nelle sue capacità investigative. Ora doveva trovare le prove che la teoria che gli ronzava in testa da quando aveva visionato la terrazza fosse valida.

14 Febbraio 2013 ore 15.45. Los Angeles, Centrale di Polizia.
J.S. controllò ancora una volta tutte le informazioni contenute nel dossier. Il caso di Edward B. Callen era veramente intricato. Riuscire a scovare la prova che metteva sulla scena del crimine una terza persona, era più complesso di quanto avesse creduto.
L'autopsia non era ancora terminata. Gracie si stava prendendo molto tempo. La patologa era affezionata alla Walker e non voleva tralasciare nessun dettaglio che potesse scagionarla. Dal laboratorio stessa storia, i tossicologici del morto e di Keena ancora non erano ancora arrivati.
Gettò con stizza l'incartamento sul tavolo. Si prese la testa fra le mani e si scompigliò i capelli, frustrato per non poter far nulla se non attendere.
«Se continui in quel modo rischi di diventare calvo molto presto». La voce fumosa di Keena penetrò in quella nebbia di scoraggiamento che lo circondava. Un'erezione dolorosa lo fece tornare alla realtà e da dietro la sua scrivania la fissò con astio.
Era destabilizzante.
«Cosa ci fai qui? Non ti ho convocata per la deposizione». L'aggredì per scaricare la tensione sessuale che lo stava facendo soffrire.
«Tu no. Ma il Capitano Finley, si». La risposta lo lasciò basito. Come si permettevano d'intromettersi nella sua indagine. La rabbia gli fece dilatare le narici. Keena osservò affascinata quel viso contrarsi dalla collera. Per una volta non era lei a doverne subire le conseguenze. Era divertente vederlo così infuriato.
«Ti ha anche spiegato il motivo per cui sei stata invitata a presentarti in centrale?». Il tono calmo era sinonimo che la pentola stava per esplodere, vedeva quasi il fumo uscirgli dalle orecchie.
«Abbassa le penne, galletto. Il Capitano vuole assicurarsi che tu non utilizzi questo caso per crearmi problemi. E' preoccupato per me». Lo punzecchiò senza ritegno.
Si fissarono in cagnesco. J.S. non sapeva se scuoterla oppure caricarsela su una spalla, portala in una stanza vuota e scoparla fino a farle scomparire quel sorrisino strafottente dal viso.
Keena per un attimo dimenticò l'omicidio e tutti i casini in cui si trovava. Per alcuni istanti poter irridere il poliziotto, farlo arrabbiare, le fece sembrare che tutto fosse nella norma.
«Sei arrivata Keena. Bene, ci sei anche tu J.S.! Aggiornatemi per favore. Voglio la certezza che questo caso sarà seguito al meglio. Senza che nessuno possa additare il dipartimento di comportamenti scorretti». Quell'insulto velato era duro da incassare. Possibile che tutti credessero che lui fosse così meschino da farle del male?
«Capitano. Credo che non debba mettere in dubbio l'integrità del tenente Kendrick. Possiamo avere delle divergenze, anche delle discussioni animate, ma restiamo dei professionisti seri, che perseguono solo la verità». Ancora una volta era intervenuta in sua difesa. Di nuovo si ritrovava a osservare con meraviglia Keena esternare il rispetto che aveva per il suo modo di lavorare.
«Dai rilievi non si è ricavato nulla. Le uniche impronte erano quelle della Walker, nessuna serratura forzata. E' stato usato un coltello preso dalla cucina. Sull'arma c'erano le impronte del Vice Procuratore. Per ora, ogni prova porta a lei. Mi dispiace». Il rapporto venne enunciato con voce piatta ma Keena comprese che dietro quelle parole c'era una frustrazione profonda. Kendrick era preoccupato di non riuscire a scagionarla. Chi l'aveva incastrata si era dato molto da fare, e anche bene. Significava che conosceva le procedure.
«Teorie?». Non riuscì a non chiedergli un parere. Anelava sapere cosa passava per quella mente brillante che era riuscita più di una volta a smantellare crimini all'apparenza perfetti.
«Dalla terrazza si accede alla scala antincendio. Chiunque poteva arrivare sin lì, trasportando Callen sedato. Si sicuro il nostro uomo è di corporatura robusta e anche allenato alla fatica. Lo ha depositato sul tappeto del salotto, dopo di con una bomboletta spray ha narcotizzato Walker. Il resto è stato semplice, ha preso un coltello dal ceppo in cucina, pugnalato la vittima inoffensiva e poi andarsene da dove è venuto. Ho trovato tracce di un passaggio, e la portafinestra si riesce ad aprire senza lasciare tracce, basta una carta di credito. Purtroppo non sono riuscito a determinare la dinamica temporale. Qualcosa che ponesse una terza persona sulla scala proprio questa notte». In sintesi espose la sua teoria.
«Per questo il prelievo e il tossicologico. Il pensiero che qualcuno possa essere arrivato sino al mio appartamento, trenta piani con un peso di ottanta chili sulle spalle, mi lascia senza fiato. Non odiava solo Edward, ma è anche determinato a rovinarmi. Perché?». La voce sommessa con cui pronunciò quella parola fece uno strano effetto a J.S., non gli piaceva che Keena si sentisse indifesa e ferita da quella situazione. Un impulso atavico lo spingeva a proteggerla, a difenderla da chiunque volesse farle del male.
«Torna in albergo Walker. Finché non arrivano i risultati degli esami autoptici, possiamo solo aspettare. Appena ho notizie ti telefono. Te lo prometto». Keena lo guardò con attenzione e non trovò nessun sarcasmo, nessuna ironia in quello sguardo. Per la prima volta vide quegli occhi velati di preoccupazione. Per lei.
Con un cenno capo salutò i due uomini e s'incamminò verso l'uscita. Sentiva che continuava a guardarla, percepiva sulla pelle quel tocco invisibile. Qualcosa era cambiato tra di loro. Cosa, lo avrebbero scoperto in futuro. C'erano molte cose su cui riflettere, tra cui cosa fare del suo appartamento quando sarebbero finite le indagini. Il solo pensiero di rimettere piede in quello che fino al giorno prima era stato il suo rifugio, ora le faceva accapponare la pelle.

14 Febbraio 2013, ore 22.15. Los Angeles, Hotel Kawada.
Era un idiota. Si trovava di davanti alla stanza di Keena Walker. Era arrivato all'hotel a piedi. Perso in mille pensieri, tra cui spiegare a se stesso perché invece di telefonarle si era presentato lì.
Le mani in tasca, continuava a fissare la porta come se fosse un nemico da abbattere. Si sentiva insicuro. Non gli era mai capitato di dover affrontare una donna che scatenava in lui una miriade di sentimenti e di emozioni, che controllava sempre con molta difficoltà.
Keena Walker non era come tutte le altre. Lei era l'unica che gli avesse fatto provare il desiderio di stabilità, di una casa, una famiglia. Solo il suo stupido orgoglio gli aveva impedito di chiederle un appuntamento, di corteggiarla. La paura di essere respinto da quella femmina bellissima e dalla lingua affilata.
J.S. fece un sospiro e bussò deciso.
Lei apparve sull'uscio quasi per magia. Indossava solo una t-shirt lunga sino a metà coscia. Nera con stampato un gattino addormentato sul davanti. Uno sguardo interrogativo le aleggiava negli occhi d'argento che lo fissavano sempre come se volessero cavargli l'anima.
«J.S.». Sentir pronunciare il suo nome dalle labbra sensuali scatenò un'eruzione dentro di lui.
L'afferrò per le spalle, la spinse nella stanza e con un calcio chiuse l'uscio. La fissò con determinazione, con tutto il desiderio accumulato da quando la conosceva. Era in piena erezione e non aveva tempo per i preliminari.
Era stanco di aspettare.
La strinse a sé, sentì i seni schiacciarsi contro il torace. Non portava il reggiseno. Registrò l'informazione mentre prendeva possesso di quella bocca che aveva arroventato i suoi sogni.
Keena era sopraffatta. Sentiva i muscoli potenti stringerla in una morsa ferrea ma delicata. Non aveva scampo dalle labbra voraci che la divoravano. Si ritrovò sdraiata sul tappeto, schiacciata dal peso di quel corpo virile che sembrava volerla assorbire. Una brezza leggera le accarezzò la pelle nuda, facendole comprendere che la maglietta era stata sfilata. Non connetteva più, Keena era completamente persa in una dimensione colma di desiderio e di violente sensazioni tattili. Una stretta dolorosa le contrasse la vagina, che anelava a essere riempita.
J.S. non riusciva a smettere di toccarla. Voleva assaggiarla tutta, imprimerle un marchio che l'avrebbe resa solo sua. Mentre le succhiava avido un capezzolo, la sentì gemere di piacere. Ebbro della vittoria le strappò il ridicolo pezzo di seta che copriva a stento la vulva.
Era bagnata.
Non poteva più aspettare. Si sbottonò i jeans e senza neanche toglierli, entrò in lei, un affondo che lo portò dritto in paradiso. Lei gridò. Ma, ormai era talmente stordito, perso nella smania di possederla che non riuscì a fermarsi, a chiederle se le avesse fatto male.
«Più forte». Un sospiro rovente nell'orecchio lo fece eccitare ancora di più. Le afferrò le natiche mentre le cosce di seta si serrarono attorno ai fianchi per tenerlo stretto a sé. Bocca contro bocca, i respiri mischiati, le lingue impegnate in un duello senza vinti e vincitori. Il pene rigido che spingeva dentro di lei sempre più veloce, più forte, senza gentilezza, troppo voglioso per controllarsi. Voleva penetrarla al punto da fondersi con lei.
Keena stava impazzendo, era al limite. Nel momento in cui l'orgasmo la investì con una violenza senza eguali lo addentò su una spalla.
Il grido che J.S. emise non era di dolore, ma di liberazione. I muscoli interni della donna si contrassero e strinsero l'uccello, il morso gli diede una scarica di piacere lungo la spina dorsale che lo portò ad affondare con più ardore e a raggiungere l'acme con un impeto che mai aveva provato.
Crollò su di lei, scosso ancora dai brividi di piacere. Continuava a baciarla, non riusciva a decidersi a staccarsi. Il pene era ancora semi rigido dentro la vagina calda, bagnata.
«Ancora». Rimase senza fiato. L'erezione riprese vigore. Questa volta Keena era intenzionata a prendere il controllo, riuscì a metterlo supino, e finalmente a fare quello che aveva sognato tante volte. Cominciò a cavalcarlo.
J.S. non riusciva a respirare per l'emozione. La fece piegare verso di sé e mentre lei si muoveva con vigore e sensualità su di lui facendolo impazzire, cominciò a succhiarle i capezzoli, serrandole le natiche e adeguandosi a quel ritmo appassionato.
L'orgasmo li travolse lasciandoli senza fiato. Keena si accasciò su di lui, esausta e sazia mentre L'uomo le accarezzava la schiena con tenerezza, si addormentò.

15 Febbraio 2013, ore 8.45. Los Angeles, Hotel Kawada.
La luce del sole filtrava dalle pieghe della tenda. Keena sbatté le palpebre per un attimo confusa da quell'ambiente estraneo. Poi spalancò gli occhi quando si rese conto che J.S. accanto a lei, la stava fissando malizioso. Nella sua camera d'albergo.
I ricordi della notte appena trascorsa le si riversarono addosso, ma prima che potesse proferire parola, lui la stava già baciando. In pochi secondi era già dentro di lei, rigido, eccitato, e affondava nella sua vagina bagnata. In un attimo raggiunse l'orgasmo e lui la seguì immediatamente.
«Buongiorno amore». La salutò dandole un bacio con lo schiocco sulla bocca.
Amore.
«Come ci siamo finiti a questo punto?». Il cervello ancora in pappa riuscì a mettere insieme quella domanda con uno sforzo incredibile di volontà.
J.S. la fissò divertito. Si rendeva conto della confusione della donna. Dei mille interrogativi che si stavano affollando in quella mente brillante.
«Ero venuto a comunicarti ufficialmente che ogni sospetto nei tuoi confronti è caduto. La mia teoria era esatta. Sei stata sedata dall'assassino. Che ha ucciso Callen in casa tua». Non riuscì a nascondere la rabbia al pensiero di quello che sarebbe potuto accaderle sola in quell'appartamento, in balia di un folle.
Keena tirò un sospiro di sollievo a quelle parole.
«E il resto? Era la tua ricompensa?». L'accusa era palese.
«No amore. Ho deciso di seguire il consiglio di Gracie. Parlare meno e agire di più. Ogni volta che cerchiamo di comunicare verbalmente, litighiamo». Sorrideva soddisfatto, sembrava un grosso leone che si fosse appena ingozzato con una gazzella.
Amore.
Era la seconda volta che la chiamava così. Non dolcezza, tesoro o zuccherino. Non lo aveva mai sentito pronunciare quel termine verso nessuna donna. Mai.
Qualcosa era cambiato tra loro. Qualcosa che la stava sommergendo e spaventando.
«Keena. Fai i bagagli, non puoi restare in albergo. Assodato che qualcuno ha ucciso il tuo ex in casa tua, e che ha cercato d'incastrarti, significa che sei un bersaglio. Pertanto, mi occuperò personalmente della tua protezione. Da oggi verrai a vivere a casa mia. E prima che comincino le obiezioni sappi che nessuna donna, a parte mia nonna e mia madre, vi ha mai vissuto o messo piede. In quel letto ci dormono solo le donne Kendrick. Sono stato chiaro?». Con quell'affermazione si alzò dal letto, e nudo si diresse verso il bagno fischiettando allegro, senza attendere una replica.
Keena era rimasta comunque senza parole. Le aveva appena detto che si sarebbero sposati?


L’uomo perfetto


Per la prima volta è puntuale alla loro cena.
È elegante, una rosa rossa sul petto.
Per la prima volta l'ascolta, senza fiatare, lasciandole raccontare la giornata.
È concentrato su di lei, non distoglie lo sguardo, fissato nei suoi occhi.
Lei lo guarda, gli accarezza una guancia. Come è bello il suo uomo.
Non ha fretta: stasera è li per lei. Inchiodato alla sedia non ha nessuna intenzione di andare ad accendere la televisione, anche se oggi trasmettono una partita di campionato.
Non ha troppa fame, lei nota. Il piatto è ancora intatto. Lui la guarda, perso.
“Caro, non guardarmi così, sai che mi imbarazzo” cinguetta, sfiorandosi il viso con le dita.
Lui non dice nulla, ma sposta di poco la testa, evidente segno di complicità.
È stata tutto il pomeriggio a preparare la cena. Ha perso diverse ore per farsi i capelli, per truccarsi ed essere perfetta. Sta frequentando da mesi un corso di yoga, ogni mercoledì. Voleva a tutti i costi raggiungere la forma che lui desiderava. Questo pomeriggio ha saltato la lezione. Doveva prepararsi per lui, ed è riuscita a entrare nel meraviglioso abito che lui le ha portato da Parigi. Doppia sorpresa per il suo amore.
È stanca, è tutto il giorno di corsa, ma non lo vuole dimostrare...
La lama penetra nella carne. Ne fuoriesce il sangue. Osservandolo fluire, ripensa al pomeriggio.
Due ore prima
Si è dimenticata il vino. Panico! La cena non può essere perfetta, senza. Deve scendere. In mezz’ora lui sarà tornato a casa. Il negozio vicino è chiuso oggi. A due isolati, però, c’è lo spaccio. Spera sia ancora aperto. Indossa scarpe coi tacchi, ma corre. Corre veloce.
Sì, è aperto. Entra. Compra. Esce.
Corre. Il piede cede, il tacco si è rotto. Un respiro profondo. Sarebbe fiera del suo controllo l’insegnante di yoga. Sale le scale. Quasi a casa. Entra, un’occhiata veloce ai capelli. Devono essere sistemati di nuovo, pazienza.
Rumori. Anzi no. Grugniti di piacere. Dalla camera da letto.
Si nasconde nel guardaroba. Ascolta. Lei viene. Lui viene. “Vestiti, amore. È a quelle stupide lezioni di yoga, ma fra poco torna”. Il silenzio del vestirsi. Un bacio schioccato, dei passi e una porta che sbatte.
Lei prende qualcosa dalla cappelliera nascosta dietro i vestiti. Lui esce dalla camera, abbottonandosi la camicia.
Gli spara al petto.
Stupenda quella rosa rossa affiorata che spicca sul bianco della camicia. Lo veste, elegante. Lo accomoda al tavolo, poggiandolo sulla sedia. Lui continua a ciondolare, ma lei è paziente, quasi amorevole. Con l’aiuto di una sparachiodi e del nastro adesivo, gli ridà equilibrio.
Presente
Lui è sempre davanti a lei e la guarda. Lo sa di essere così bella da lasciarlo senza parole e con quell’espressione di stupore impressa sul volto.
Silenzio.
“Buon San Valentino, amore mio”.
Lei sorride, compiaciuta. Com’è fortunata: il suo è l’uomo perfetto.



Il vapore acqueo si sentì improvvisamente stanco in quel tardo pomeriggio di martedì 14 febbraio 1961, giorno di San Valentino, e si condensò. La nebbia si distese in languide ondate, ricoprendo il corso della valle incisa dal fiume Magra. Il manto di bruma, all’apparenza uniforme e statico, era in realtà una massa viva, agitata da improvvisi mulinelli e vigorose correnti che qua addensavano le goccioline rendendole compatte come un muro di mattoni, là al contrario le separavano conferendo alla foschia la trasparenza di un velo di organza. Un banco più fitto calò sulla strada che attraversava la Selva di Filetto, bordando le mura bizantine dell’omonimo piccolo borgo.
Al volante del suo “OM Lupetto”, Adolfo Pitimorsi, Fino per gli amici, tirò un sacrosanto moccolo quando la madida cappa avvolse il suo autocarro. Era già in ritardo con l’ultima consegna della giornata, una credenza da portare a Mocrone, e adesso ci si metteva anche quella maledetta nebbia. Accese le luci di posizione, più per farsi vedere che per migliorare la visibilità quasi nulla. Fortuna che in quel tratto la carreggiata correva dritta come il solco inciso da un aratro.
Sacramentando come un turco ateo, Fino avvistò all’ultimo istante la figura scura e solida che emerse all’improvviso dall’impalpabile mare lattiginoso. I secondi che intercorsero da che il suo cervello la riconobbe come una ragazza che camminava a fatica, un braccio premuto contro lo stomaco, l’altro proteso in avanti in un gesto di supplichevole aiuto, al momento in cui il piede, lasciato l’acceleratore, spinse il pedale del freno furono troppi: il camioncino piombò sulla giovane con tutta l’inerzia delle sue cinque tonnellate.
Un raccapricciante tonfo sordo concluse la giornata di trasporti.
Il brigadiere Marco Matassoni, verace sangue anticlericale romagnolo, aggiunse le sue imprecazioni, sia pur sibilate a denti stretti, a quelle diffuse due ore prima tra i castagni secolari.
Il suo superiore, il maresciallo Vegnuti, era in licenza – insieme alla consorte in gita a Rapallo – quindi, attualmente, era lui al comando della stazione dei carabinieri di Villafranca, un paese della Lunigiana dove la vita scorreva tranquilla, non turbata da delitti degni di nota. Beh, almeno non spesso.
Si aspettava di trascorrere una settimana in rilassata noia e invece eccolo lì, in piedi nell’umidore nebbioso, osservando il dottor Alderici, medico condotto e legale nella fattispecie, chino sul corpo straziato di una giovane donna dall’età apparente di venti anni. Alle sue spalle, seduto su un paracarro, sentiva Fino, distrutto dal rimorso, rispondere tra i singhiozzi alle domande rivoltegli dall’appuntato Zani.
«Sa chi è?» chiese, confidando nella vastità delle conoscenze del dottore che aveva in cura tutto il circondario.
«Si chiamava Elsa. Era l’unica figlia della vedova Spinetti. Aveva ventuno anni e aiutava la madre che fa la sarta» bofonchiò a spezzoni l’interpellato, senza alzare il capo e continuando nel suo esame.
«E’ morta sul colpo?» domandò poi, tanto per continuare la conversazione piuttosto che per reale esigenza d’indagine. Il caso era lampante: decesso per incidente stradale.
«Sì» disse il medico rialzandosi con uno scricchiolio di giunture. «Tuttavia sarebbe spirata comunque» aggiunse in tono sibillino.
Matassoni, le fini sopracciglia bionde aggrottate, gli lanciò uno sguardo interrogativo.
«E’ stata pugnalata allo stomaco. Tre colpi almeno. Sferrati con forza. Non poteva sopravvivere a lungo con un’emorragia di tale gravità. Mi stupisco, anzi, che sia riuscita ad arrivare sin sulla strada: non è stata ferita qui» spiegò Alderici serio in volto, indicando una serie di macchie di sangue che dall’asfalto bagnato si perdeva nell’erba. Stava per soggiungere qualcosa, ma il brigadiere non lo ascoltava più.
Immaginando nelle orecchie la secca reprimenda del maresciallo Vegnuti per la sua superficialità investigativa e la mancanza di spirito di osservazione, Matassoni si lanciò sulla pista, scrutando il terreno con occhi ora da falco.
La scia di gocce cremisi lo condusse, serpeggiando tra i tronchi degli alberi, sino alla malmessa porta di legno di una costruzione addossata all’esterno delle mura di cinta di Filetto. La chiusura era costituita da un semplice chiavistello metallico, già tirato. Per precauzione, slacciò la fibbia della fondina della Beretta d’ordinanza prima di varcare la soglia.
L’edificio consisteva in un unico locale adibito a deposito di attrezzi agricoli, ma un materasso e alcuni stracci in un angolo suggerivano che la stanza servisse d’alcova per incontri d’amore clandestini. Al centro del pavimento una pozzanghera di sangue rappreso segnava il punto in cui Elsa era stata ferita. Una rapida perquisizione non produsse indizi utili a identificare l’assassino.
Tornato sul luogo dell’investimento, Matassoni si scusò con il dottore per averlo piantato in asso, rabbonendolo in parte con la conferma della giustezza della sua supposizione.
«Stringeva questo nella mano destra» disse burbero Alderici, tendendogli un braccialetto di corallo rosso. Il carabiniere non era un esperto, ma comprese che era un gioiello di valore. Troppo costoso per la giovane figlia di una sarta di paese, oltretutto vedova.
Mentre riponeva il bracciale all’interno di un taschino dell’uniforme, chiese quasi umilmente: «Ha altro da riferirmi?».
«Dovrà aspettare i risultati dell’autopsia che eseguiranno al “S. Antonio Abate” di Pontremoli» sbuffò Alderici, abituato al modo di fare di Vegnuti, spiccio ma sempre educato e formale. «Comunque, fossi nei suoi panni, cercherei un’arma da taglio lunga e sottile, tipo uno stiletto, non certo un comune coltello da cucina. E ora, mi scusi, ma vado in paese a telefonare all’ospedale perché mandino un’ambulanza a rimuovere il cadavere di questa poveretta. Poi andrò dalla madre a portarle la brutta notizia. Salvo che non voglia farlo lei di persona».
Il carabiniere scosse compunto la testa, felice che fosse il medico ad assumersi quello spiacevole incarico.
Contemplando la schiena rigida che si dissolse presto nella caligine, Matassoni lasciò uscire dalla bocca un lungo e accorato sospiro: che bella gatta da pelare gli era capitata!
Quando la strada fu di nuovo libera, Elsa portata via e Pitimorsi diretto a casa con il suo carico di dolore, il brigadiere non ebbe difficoltà a trovare l’abitazione della vittima. Illuminato dall’iridescente chiarore dei rari lampioni persi nella nebbia, un via vai mesto contrassegnava, infatti, un uscio verde, l’adito di una casa malconcia situata nella piazza della chiesa di Filetto: le novità, brutte o cattive, si spargono in fretta nei piccoli borghi.
L’apparizione della divisa nera provocò il subitaneo interrompersi del mormorio diffuso che forniva il sottofondo ai pianti e ai gemiti di dolore profusi dalla madre della vittima. Dal nugolo variamente assortito di comari, strette nella cucina a confortare con le parole e la presenza lo strazio della sarta, sortì fuori un donnone basso e tondo che fece cenno a Matassoni di seguirla.
Accolto in un minuscolo tinello, il brigadiere apprese dalla signora Tiradani, un’amica di famiglia, l’intera storia della breve vita di Elsa il cui succo si riduceva a: essere una figlia e ragazza ammodo, tutta casa e chiesa, senza grilli in capo. L’investigatore non si aspettava nulla di meno: quando mai, infatti, viene ammazzata una persona che lo merita per davvero?
Insistendo con garbo, però, riuscì a estorcere all’apologetica matrona l’ammissione che negli ultimi tempi la giovane era cambiata, assumendo atteggiamenti più disinvolti. La colpa era senza dubbio del suo moroso, di nome Arturo, nipote delle nubili sorelle Ghironi, un giovanotto di Parma trasferitosi temporaneamente dalle zie per “problemi” sorti con il padre. «Tutta l’aria del mascalzone, se capisce cosa intendo» fu il commento finale.
Annuendo compartecipe, il brigadiere fiutò una possibile pista: coltellate selvagge e ripetute di solito si collegavano a un forte stimolo emotivo. Un delitto passionale? Magari il focoso giovane aveva preteso di più di qualche bacetto e la ragazza si era rifiutata, scatenandone la furia omicida. Dopo tutto non era quello il giorno della Festa degli Innamorati?
“Calma, Marco” si ammonì, prima ancora di figurarsi Vegnuti che lo rimproverava di saltare alle conclusioni: “Nessuno di questi tempi va in giro con un pugnale!”. Passione e premeditazione: un bel dilemma. In ogni modo, il moroso era un buon punto di partenza. Nell’atto di congedarsi, lo colse un’ispirazione improvvisa. «Potrei dare un’occhiata alla camera della… ragazza?».
La sua guida chinò la testa da un lato, squadrandolo come il merlo valuta il verme, quindi, pur con aria riluttante, acconsentì in silenzio, conducendolo per un angusto corridoio dalle mattonelle sconnesse fino a una stanzetta sul retro.
L’arredamento era modesto al limite dello squallido: un letto, un comodino, una sedia, un armadio, un cassettone, coronato da uno specchio di cui un buon terzo aveva perso l’argentatura, e un paio di semplici mensole. Nonostante il piglio inquisitorio della sua accompagnatrice, il carabiniere scartabellò con calma tra i libri, essenzialmente romanzi di Liala e Delly, aprì armadio e cassetti, ben attento a non mettere in disordine, ma non trovò nulla d’interessante. “Eppure molte giovani di quell’età si confidano con un diario”, si disse pensoso. Volse attorno lo sguardo. D’impulso si chinò a scrutare sotto il letto: una piastrella contro il muro era leggermente sollevata. Incuneando a fatica un braccio, la raggiunse e l’alzò, rivelando un incavo sottostante: le punte dei polpastrelli toccarono una copertina ruvida.
Rialzatosi, incurante delle acute rimostranze della comare, spostò di peso il giaciglio e s’impossessò del quadernuccio custodito in quella nicchia neanche fosse stato il Santo Graal.
Lo sfogliò rapidamente. Era, in effetti, il diario di Elsa, ma le annotazioni erano saltuarie, s’intensificavano soltanto verso la fine, quando descrivevano il turbamento sentimentale della ragazza nei confronti dell’audace parmigiano. L’educazione ricevuta era fonte di travaglio per la giovane, combattuta tra la sincera paura di peccare e l’ardente desiderio di concedersi all’innamorato.
Più interessante si rivelò la lettura di un foglio dattiloscritto piegato più volte, racchiuso tra le ultime pagine:
Amore mio adorato, domani è la festa degli innamorati.
Ti prego, inconrtriamoci al solito posto: anche se sono malato, ho bisogno di vederti. Ti scongiuro, voglio srtringerti tra le mie braccia. Posare le mie labbra sulle tue. Ti aspetto alle quattro: non mi rtradire.
Con amore sincero, tuo per sempre
Arturo
“Bel colpo” rimuginò tra sé Matassoni. “Questo biglietto colloca il moroso sul luogo del delitto. E non sarà difficile trovare la macchina da scrivere utilizzata, con quella lettera “o” fuori linea… Di sicuro è un assassino dell’ortografia: tre errori in neppure sei righe!”.
«Questo lo prendo io» comunicò alla sua sorvegliante che, per quanto stizzita, non ebbe il fegato di opporsi.
Ricevute le indicazioni per raggiungere la dimora di Arturo, prossima meta delle sue indagini, il brigadiere si accomiatò, ben lieto di fuggire dall’atmosfera di funebre angoscia che gravava nell’appartamento.
Respirando con sollievo la sia pur gelida e umida aria che l’accolse all’esterno, il carabiniere controllò l’orologio: era ora di cena, come gli confermava anche il languore allo stomaco. L’ora ideale per trovare l’indiziato al calduccio tra le mura domestiche.
Palazzo Ghironi era un mondo diverso rispetto a casa Spinetti. Una grande porta a doppia anta, di rovere massiccio punteggiato da borchie di ferro, sbarrava l’ingresso ai cui fianchi colonne in pietra serena sorreggevano un balcone dal cui parapetto spuntavano pericolosamente dei vasi colmi di gerani rinsecchiti dal freddo. Alte persiane chiudevano le finestre disposte sulla facciata.
Matassoni premette il pulsante bronzeo del campanello: l’eco argentina della suoneria rimbalzò dietro il portone. Dopo un buon minuto un battente si aprì con lentezza, cigolando: una donna gradevole, di mezza età, si affacciò dal vano socchiuso. Occhi alteri squadrarono il brigadiere da capo a piedi, quindi una voce dura come acciaio e gelida come neve sulla cresta del Sillara salutò concisa: «Buonasera. Desidera?».
Deluso dalla mancanza dell’effetto che di solito provocava la comparsa di un’uniforme da carabiniere sull’uscio di casa, il militare si erse nel suo metro e settanta per presentarsi formalmente e poi chiese: «E voi siete…».
«Gelsomina Ghironi», la risposta che non olezzava per nulla dell’aroma dolce del fiore.
«Mi risulta che soggiorna qui un giovanotto di nome Arturo».
«Sì, è mio nipote, il figlio di mio fratello» confermò ieratica la sua interlocutrice.
«Devo parlargli con urgenza. E’ in casa?».
«Certo. Entri, le faccio strada».
Sorpreso dal pronto invito, Matassoni mormorò un: «Grazie, signora», guadagnandosi la pronta rimbeccata: «Signorina, prego».
Berretto sottobraccio, non ci teneva a passare da zotico, seguì Gelsomina per un ampio corridoio, illuminato da appliques di cristallo, scrutato dagli sguardi tristi e severi di uomini e donne dipinti nei quadri appesi alle pareti.
La sala da pranzo era vasta quanto l’intero appartamento della vedova Spinetti. Seduto a capotavola di un tavolo di noce massello, davanti a un piatto di minestra fumante, un giovanotto di bell’aspetto in pigiama e vestaglia rimase a bocca aperta e cucchiaio a mezz’aria nel vedere la strana coppia entrare nell’ambiente. Alla sua sinistra, una donna dai tratti simili a Gelsomina, ma appena più anziana, non riuscì a soffocare un singulto di stupore.
Il tempo delle rituali presentazioni, «Mio nipote Arturo, mia sorella maggiore Rosa», «Piacere. Brigadiere Matassoni», e il militare attaccò deciso: «Signor Ghironi, dove si trovava oggi pomeriggio alle quattro?».
«Perché me lo chiede?» ribatté sconcertato il giovanotto, riponendo il cucchiaio nella scodella. Nessuna traccia di ansia sul suo viso.
«Perché a quell’ora la vostra diciamo fidanzata è stata uccisa».
Quasi rovesciando la pesante sedia, Arturo balzò in piedi con un grido strozzato: «Elsa? Uccisa? Com’è possibile?!».
«Pugnalata, per la precisione» sottolineò l’investigatore.
Il giovane si abbatté sulla seggiola, gomiti sulla tavola, testa tra le mani, scoppiando in un pianto dirotto sotto gli occhi esterrefatti delle zie.
Il carabiniere ponderò la reazione del presunto colpevole e stabilì che non si trattava di una messinscena: troppo vere quelle lacrime d’amore spezzato!
«E’ impossibile che sia stato Arturo» intervenne Rosa, dalla voce gentile ma dall’intelligenza acuta nel capire il motivo della visita del carabiniere e a propugnare l’innocenza del nipote. «Soffre d’influenza. E’ chiuso in casa da tre giorni e si alza solo per pranzo e cena».
“Male, molto male” rimuginò Matassoni vedendo crollare il suo bel castello d’ipotesi e allontanarsi malinconicamente una rapida soluzione del delitto.
«Possedete una macchina da scrivere?» s’informò allora per guadagnare un po’ di tempo utile a riordinare le idee.
«Una “Olivetti Lettera 22”. La teniamo in quello che era lo studio di nostro padre» gli rispose piatta Gelsomina, immobile alla sua destra.
«E allora questo come lo spiegate?». Il brigadiere azzannò Arturo, sventolandogli sotto il naso il foglio rinvenuto dentro il diario di Elsa.
«Non lo so! Non l’ho scritto io! Non so battere a macchina!» fu l’accorato diniego che il giovane imbastì tra i singhiozzi convulsi che lo squassavano.
«Lo confermo» interloquì quieta l’algida zia. «Ho provato a insegnarglielo, ma è proprio negato».
«Mi faccia vedere la macchina da scrivere » ordinò brusco il militare a Gelsomina, la voce rampognante del maresciallo che gli rimbombava minacciosa nelle orecchie.
Un largo corridoio, nuovi quadri ancor più vetusti ed ecco lo studio. Al centro di un’imponente scrivania in mogano, regina di una ricca corte di suppellettili e accessori per la scrittura, era appoggiata una Lettera 22 dalla tonalità azzurrina.
«Per favore, scriva quel che le detto» disse alla donna Matassoni che, personalmente, nutriva una profonda avversione per quegli aggeggi diabolici, preferendo la penna stilografica.
Obbediente, la donna si sedette allo scrittoio e infilò con consumata destrezza un foglio nel rullo di gomma.
«S'ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo» recitò a memoria l’investigatore, patito delle opere teatrali manzoniane. Una raffica di battute e la dattilografa si fermò in attesa.
«Che velocità! Basta così. Me lo dia pure». Il pezzo di carta tra pollice e indice, il carabiniere esaminò il dattiloscritto, confrontandolo con il primo:
S'ode a destra uno squillo di rtromba, a sinisrtra risponde uno squillo
La macchina da scrivere con cui era stato redatto l’invito all’appuntamento amoroso era senza dubbio quella. E allora? Matassoni scosse il capo, il cervello avvolto nelle spire opalescenti di una nebbia che gli ottenebrava il raziocinio. Già si vedeva redarguito da Vegnuti per la sua totale inettitudine quando una vocina gli sussurrò, forse per consolarlo: “Sarà anche svelta, ma quanto a sbagli non scherza”.
Una folata improvvisa disperse la foschia intellettuale. Mise a fuoco le parole: lo stesso errore in entrambi gli scritti. La memoria corse a un compagno di scuola delle elementari affetto da disgrafia: non riusciva mai a scrivere “proprio”, bensì “prorpio”. Una bazzecola per sostenere un’accusa, però un passo nella direzione giusta.
Gli occhi cerulei scrutarono il volto indifferente della donna, poi si soffermarono sul tagliacarte posto sul piano della scrivania: una sorta di pugnale lungo e stretto. La lama rifletteva spavalda la luce del lampadario: era stato ripulito con cura meticolosa. Niente da sperare da quella parte: per quanto conosciuto, il Luminol era ancora lontano dall’impiego odierno.
Matassoni giocò il tutto per tutto. Mostrò il braccialetto di corallo a Gelsomina, tuonando: «Lo riconosce questo?».
«No». Sic et simpliciter.
«Che dici Gelsomina! E’ il bracciale che Leone ti regalò per San Valentino prima di partire per la guerra. Pace all’anima sua: è morto a Giarabub… Dove l’ha trovato, brigadiere?». La calda voce di Rosa pronunciando tranquilla quell’affermazione ebbe l’effetto delle trombe di Giosuè contro le mura di Gerico.
Una sequenza di emozioni contrastanti, rabbia, odio, rassegnazione si tratteggiò sul volto affilato della donna, una maschera di pietra che si sciolse nella devastazione della sconfitta: «Sì, l’ho uccisa io quella sgualdrina. Aveva messo gli occhi su Arturo. Quando ho scoperto che il braccialetto era sparito dal portagioie ho subito immaginato che quello stolto di mio nipote lo avesse regalato alla sua ganza. Non potevo permettere un simile sgarbo. Così, approfittando della sua malattia, ho scritto il biglietto per adescare Elsa nel deposito, dove sapevo che s’incontravano perché una volta avevo seguito Arturo, e obbligarla a restituirmelo. Non volevo ucciderla: avevo portato il tagliacarte solo per rendere più convincente la minaccia. Ma quando le ho visto al polso il bracciale e le ho intimato di ridarmelo, lei ha cominciato a ridere, sfidandomi a riprenderlo. Mi ha definito una vecchia patetica, una zitella ridicola, un’illusa! Abbiamo lottato. Sono riuscita a strapparglielo via, ma Elsa non mollava, continuando a insultarmi, a ferire i miei sentimenti… Non ci ho visto più. Ho tirato fuori il pugnale e ho colpito, colpito, colpito… Quando è caduta a terra, sono scappata via».
Le mani giunte attorno al volto sbigottito, Rosa balbettò sconvolta: «Hai ucciso un essere umano per un braccialetto!».
Matassoni dissentì: «No, ha ucciso per amore».
Piangendo composta, Gelsomina sussurrò con inaspettata dolcezza: «Assomiglia tanto al mio povero Leone…»

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