Dark
Valentine
Di
Alexandra Master
Mi
stringo ancora di più il cappotto al petto, tengo fermo il collo e mi rannicchio
quasi su me stesso mentre un’altra folata gelida mi scuote, mi sposta, mi fa
rabbrividire fino nelle ossa. Lei mi aspetta a casa, una casa calda ed
accogliente, la nostra casa.
Fuori
dalla porta, uno zerbino verde dice a tutti che sono i benvenuti, già, tutti.
Anche il suo amante.
Come
lo so? Beh, non sono stupido. Il letto sfatto a metà pomeriggio, lei in
vestaglia e l’aria allarmata, le telefonate a casa che si interrompono sempre se
rispondo io. E quell’anello all’anulare destro.
“Ho
fatto una piccola follia, ma mi piaceva tanto!!” Questa la sua risposta quando
le ho chiesto dove lo avesse preso. Un sorriso innocente sul viso ma gli occhi
sfuggenti e poi le labbra, morse lievemente dagli incisivi mentre, chiaro come
il sole, nella sua testa scorreva un pensiero. Avete presente gli striscioni che
seguono gli aerei? Quelli sui quali, a volte, dei fidanzati innamorati chiedono
alla loro amata di sposarlo? Ecco, sulla sua fronte ne scorreva uno uguale, ma
la scritta non era “Vuoi diventare mia
moglie?”, era piuttosto : “Fai che se
la beva, fai che se la beva!” ingenua. Ed io da bravo compagno ho finto di
crederle, dandole un lieve bacio sulle labbra.
Allora
è nata l’idea, il germe si è insinuato nella mia testa nel momento stesso in cui
le mie labbra si sono posate sulle sue.
Solo
due isolati e gliela farò pagare. Mi sento come Rodion
di “Delitto e castigo”, nascondo sotto l’impermeabile l’oggetto che segnerà la
fine di ogni sofferenza, di ogni inganno, di ogni bugia.
Oggi
è il dodici febbraio, il giorno del nostro anniversario, ma noi, romantici come
siamo sempre stati, abbiamo deciso di festeggiare questa ricorrenza tra due
giorni. San Valentino ed il nostro decimo anniversario.
Dieci
lunghi anni buttati così, come se nulla fosse, come se il nostro amore non
contasse nulla. Ma sarò io a mettere
la parola fine, non loro. Sarò io l’uomo, il coraggioso, l’unico capace di
essere onesto e di fare ciò che è giusto.
Ricordo
ancora la prima volta che ci siamo visti, era estate quando ci conoscemmo, una
calda ed appiccicosa estate di Saint Louis, una di quelle che ti lasciano
addosso le camicie e che ti incollano i capelli al viso. Quella sera il mio
riparo era un bar con l’aria condizionata, un posto carino con delle ragazze che
ballano e servono ai tavoli. Non era una bettola né un bordello, ma di certo non
un locale extra lusso.
Appena
entrato l’ho subito notata, bella, alta e formosa, i lunghi ricci ramati tenuti
su da una molletta troppo piccola, tanto che alcune ciocche le scappavano
dall’improvvisata acconciatura appiccicandosi sul collo
umido.
Ricordo
di aver sentito immediata eccitazione e caldo quasi quanto in strada, nonostante
l’aria condizionata mitigasse l’afa estiva.
Le
avevo fatto gli occhi dolci tutta la sera ed era stata l’unica a servirmi. La
salutai lasciandole il mio numero su un tovagliolo. Banale ma spesso efficace.
Volevo farmela e non mi sarei spaventato se avesse chiesto qualcosa di
più.
Uscendo
dal locale avevo sentito strane voci provenire dal retro e così, incuriosito, mi
sono avvicinato a controllare. Stava litigando con un uomo che la rimproverava
per averci provato con me, lei prima cercava di fare la gatta accarezzandolo per
calmarlo. Fin lì ero rimasto a guardare, quasi intontito dalla sua bellezza,
eccitato dalle movenze sexy di quei fianchi morbidi, poi lui le aveva tirato un
manrovescio che l’aveva fatta volare lontano. In quel momento, vedendola lì col
viso insanguinato ho capito che era mia, che dovevo proteggerla. Non sono pazzo,
non sono un maniaco, mi sono solo innamorato.
Affrontai
l’uomo con coraggio, lo misi in fuga con un paio di minacce e mi occupai di lei.
“Come
ti chiami?” le chiesi.
“Ester”,
rispose lei tremando. Aveva freddo nonostante la cappa umida, i capezzoli
svettavano attraverso il tessuto leggero della camicia mostrando che non
indossava intimo. Avrei dovuto capirlo allora che razza di donna era, ma ero
accecato dal sangue che fluiva all’inguine e dalla sua
bellezza.
“Un
nome biblico. Molto bello. Io sono Samuel. Vieni, Ester, ti porto alla tua auto.
Hai finito per stasera, no?”
Lei
annuì, poi si fermò di scatto. “Sam?” mi chiamò. “Non ho l’auto.” Si strinse le
braccia al petto e non potei fare a meno di pensare a quanto fosse bella e
fragile.
“Ti
accompagno io; e stai tranquilla, sono un vigile del fuoco, non ti farò del
male.”
La
portai a casa e finimmo a letto quella sera stessa. Dopo averle messo del
ghiaccio sul labbro gonfio e dei punti finti a tener chiuso lo zigomo, lei si
sdebitò con un Martini ed un bacio. Presto però finimmo sul divano nudi ed
incollati. Volevo assaggiarla, sentire il suo sapore, leccare ogni sua piega e
sentirla gemere appagata. Mi staccai dalla sua bocca per baciarle il seno, la
pancia, scesi fino ad inginocchiarmi, lei sul divano nuda a gambe aperte era una
visione celestiale. Calda e fremente mi disse che voleva assaggiarmi anche lei.
Fu così che finimmo sulla moquette a sentire il nostro
sapore.
Non
ci fu altro quella sera e per molte altre sere. Non andai più al bar e non la
vidi più. Fino al dodici febbraio di dieci anni fa. Ero andato a trovare un
amico alla stazione di polizia, quando vidi una figura familiare attraversare
confusa l’atrio.
“Ester!”
la chiamai quasi ipnotizzato, il cuore che galoppava assieme
all’inguine.
Si
era voltata e mi aveva sorriso. Era lì per denunciare il furto della sua auto,
la accompagnai e poi andammo a cena fuori.
“Ti
penso spesso, sai? Non ti ho mai dimenticato.” Aveva detto ad un certo punto
della serata.
“Nemmeno
io ti ho mai dimenticata.” Era stata la mia risposta, una storia banale forse,
ma che andava benissimo fino a sei mesi fa. Fino a che lei non aveva tradito la
promessa fatta quella sera a casa mia: per sempre.
Quando
apro la porta di casa, non c’è nessuna luce ad accogliermi, nessun camino acceso
e nessun profumo di cena. Un biglietto laconico sul tavolo della cucina assieme
ad i resti delle lasagne preparate a pranzo.
Addio.
Cosa??
Che sia dannata! Salgo in camera da letto a passi rapidi, accendo il pc per
attivare i gps sul suo cellulare, me lo aveva chiesto
lei di metterlo in modo da essere sempre raggiungibile in caso di necessità. La
finestrella della posta si apre di colpo mentre digito frenetico i dati sulla
tastiera.
Apro
la posta mentre aspetto che vengano assorbiti dal sistema. È del lavoro, è
arrivato lo stipendio, sai che me ne frega… un momento… la mail è di due giorni
fa, letta e contrassegnata. Io non ho aperto la posta… ma allora! È stata
lei!
Apro
il conto on-line e lo trovo prosciugato, l’ultimo movimento risale a due ore fa,
ha ritirato tutto quella puttana.
Nel
frattempo un bip mi avverte che la
localizzazione è avvenuta con successo. Si è spostata verso Nord. La spia verde
segna un piccolo motel a più di dieci miglia da qui. Devo pianificare bene la
strada da percorrere. Mi butto sul letto ancora vestito, ho solo l’accortezza di
riporre l’orologio nel porta gioie sul comodino. Lo lascio cadere ad occhi
socchiusi nella scatola fasciata di velluto ma non sento il solito tintinnio
metallico, la scatola è assolutamente vuota. Ha portato via anche i gioielli.
La
disperazione mi assale, calde lacrime scendono dal viso fino a bagnare la
camicia blu che indosso, è umiliante.
Perché?
Perché?
Mi chiedo. Non le ho mai fatto mancare nulla, mai ho alzato un dito su di lei,
mai l’ho sgridata ed ecco cosa succede ad amare troppo.
Sono
passati due giorni dalla mia scoperta, è il quattordici febbraio, il giorno di
San Valentino, il giorno del nostro anniversario, il nostro giorno. Sono fermo
ai piedi del letto matrimoniale, le lenzuola rosse del loro sangue spiccano
contro il bianco della stanza. I loro corpi pallidi ma non ancora freddi sono
avvinti, anche nello stremo della morte sono rimasti insieme. Con le mani e la
camicia imbrattate del loro amore varco la soglia dell’albergo sotto gli sguardi
attoniti degli ospiti e dei due cadaveri sdraiati sul
letto.
LA NOTTE DI SAN VALENTINO
di Osvalda Sala
Giovanna richiuse adagio la
porta della biblioteca cercando di calmarsi. La pendola nel corridoio batté
dieci colpi. Si sentiva le guance in fiamme, le labbra arse
Tra breve tutto sarebbe finito. D’improvviso non ebbe più paura.
Il pensiero di Elena le attraversò la mente. La sua dolce,
timida, Elena!Che la zia prendeva gusto a tormentare
con sadica cattiveria. E lei non reagiva! Limitandosi a piangere nel silenzio della sua
camera
Anche per la sua sorellina minore, indifesa e schiavizzata
da quella vecchia arrogante e dispotica, si era infine decisa al gran passo! E
per i quattrini. La zia era ricca a palate, ma una vera strega. La loro vita era
stata un inferno! Soprattutto per Elena. Che non aveva mai avuto e non
aveva la forza di
reagire.
Tutte le sere, la zia, voleva che Giovanna le facesse un
po’ di lettura nella biblioteca dalle pareti di legno scuro, tetra e polverosa
dove lei, assisa nella sua poltrona, imperava superba e
tirannica.
La signora Ebe, la governante
diceva che era il diavolo fatto persona.
Nessuno avrebbe pianto la sua morte. E lei ed Elena
sarebbero state ricche e…libere!
Due gocce di veleno nella tisana che la zia beveva tutte
le sere prima di coricarsi. Un veleno che poteva simulare un attacco cardiaco.
La vecchia soffriva di cuore. Aveva già subito due infarti. Il medico non avrebbe alcun dubbio sulla
causa del decesso
La sorella le giunse improvvisamente alle spalle. Giovanna
la fissò con uno sguardo stranito. Quasi non la vedesse.
«Che hai Giovanna? Sembri stravolta» le chiese Elena
ansiosamente «hai litigato di nuovo con lei?».
Le liti tra Giovanna e la zia la turbavano
profondamente. La sorella maggiore non
subiva in silenzio! Le teneva testa,
urlava,sbatteva le porte.
Giovanna scosse il capo, rivolgendole con un sorriso
stentato.
«No, ho mal di testa. Vado a fare due passi. Non
disturbare la zia», le raccomandò, accennando con un gesto del mento alla porta
chiusa della biblioteca «sta sonnecchiando» aggiunse ravviandosi nervosamente i
capelli.
Si chiese se la vecchia stesse già bevendo la sua tisana.
Non avrebbe notato nulla di strano. Il veleno era insapore. E inodore. E poi
l’aveva zuccherata più del solito. Era golosa. L’avrebbe trangugiata con
soddisfazione sino all’ultima goccia!
«Si, hai ragione Giovanna. E poi non voglio rischiare
di…».
Strinse le labbra chinando il capo.
«Sempre Piero? »
«Già. Non fa che dirmi che è un buono a nulla, uno sfaticato.Come fosse tutta colpa sua se non riesce a trovare
un lavoro! Mi ha proibito di vederlo. E
proprio oggi! La sera di San Valentino!Avevamo pensato
ad una pizza e ad un cinema, e invece…».
«E tu infischiatene e vai a raggiungerlo! Sei maggiorenne!
»
«Lo so ma…mi ha minacciata di mettermi sulla strada
e…».
Giovanna le gettò uno sguardo torvo. Quel suo Piero era
realmente un inetto ed Elena avrebbe avuto solo da guadagnare a perderlo! Ma
quella sciocca era innamorata cotta e non vedeva a un palmo dal suo naso!
«Va bene, non crucciarti. Può darsi che le cose infine si
sistemino»,la rassicurò. Come aveva sempre fatto sin
da quando erano bambine. La sorella maggiore! Il suo angelo
custode!
Elena le rispose con un sorrisino incerto che Giovanna
giudicò un po’ ebete. La osservò salire lentamente lo scalone che portava ai
piani superiori. Poi uscì.
La notte era umida, con una pioggerellina sottile e
fastidiosa.
Si diresse verso l’insegna luminosa di un bar. Entrò nel
locale. Luce e tepore la rinfrancarono, rilassandola. Gettò uno sguardo
distratto ai pochi avventori. Una giovane coppia seduta ad un tavolino d’angolo
parlava concitatamente. Giovanna ebbe l’impressione stessero litigando. Bel
modo, si disse ironicamente, di trascorrere la serata della festa degli
innamorati!
Distolse lo sguardo, appollaiandosi su un alto sgabello di
fronte al bancone. L’orologio a muro segnava le ventidue e trenta.
Automaticamente controllò il proprio, al polso. Tutto ormai doveva essersi
concluso. Cercò di rilassarsi.
Ordinò un brandy. Sentiva di averne bisogno. E voleva far
trascorrere ancora una mezz’oretta. Per maggior precauzione. Poi sarebbe
rientrata. E avrebbe recitato la scena madre! L’aveva provata e riprovata dentro
di sé, sino alla nausea. E ormai si sentiva in grado di rappresentarla come
un’attrice consumata.
Le lancette dell’orologio sembravano bloccate. La coppia
che discuteva se ne andò a braccetto. Dovevano aver fatta la pace Alla fine san Valentino aveva avuto la meglio
sui loro temporanei dissapori.
La porta si chiuse dietro di loro in un tintinnio di
cristalli. Per distrarre la mente dal suo pensiero fisso arzigogolò sui motivi del loro litigio. Che
poi, alla fine, tra due innamorati, era sempre quello: la gelosia! Ma la gelosia era anche l’amore.
Che è la forza che regge il mondo. E lei di amore…ma sarebbe stata ricca!
Grazie a due piccole gocce di veleno.
Ordinò un altro brandy. Il barista la guardò con
curiosità. Ma non se ne curò. Di che si impicciava? Se anche avesse voluto
ubriacarsi, non lo riguardava! Il suo mestiere era quello di servire i clienti,
Non di sindacare sulle loro intenzioni! Buttò giù il brandy d’un fiato.Ne chiese un terzo.
«Signora, non crede…»
«Si faccia gli affari suoi! » lo interruppe lei
sgarbatamente, lo sguardo torvo.
L’uomo non replicò, ma le versò il liquore ambrato in un
silenzio carico di muta riprovazione.
Detestava gli ubriachi, Specialmente le donne. Tuttavia non aveva a che fare con una minorenne. Nessuno avrebbe
potuto rimproverargli nulla. Si augurò comunque che quella scorbutica cliente non avesse anche la
sbronza cattiva. Non voleva guai nel suo locale.
Questa volta Giovanna bevve lentamente. Centellinando ogni
sorso. La testa cominciò a girarle. Non era abituata all’alcool! In casa non
c’erano liquori. La zia li aborriva. Il marito era stato un alcolista ed era
morto, a soli cinquant’anni, di cirrosi epatica. Lei lo ricordava appena. La zia le aveva
prese con sé pochi mesi prima della sua morte. Dopo che i loro genitori si erano
schiantati contro un camion, di ritorno da una festa. Una notte d’inverno, con
una nebbia da tagliare col coltello che rendeva la visibilità pressoché
inesistente. Una velocità assurda. Una
stupida imprudenza. Che le aveva lasciate orfane in tenera età. In balia di
quella megera!
Cercò di dominare la collera che sempre l’invadeva quando
vi ripensava. Doveva mantenere il suo sangue freddo.Non lasciarsi fuorviare da altre
emozioni.
Rientrò poco dopo le ventitré.
Tutte le luci della casa erano accese. Davanti
all’ingresso principale, la macchina della polizia lampeggiava
sinistramente.
«La signorina Giovanna Fabiani?» un agente, sbucato dal
nulla dalle tenebre del giardino, le si avvicinò facendola sussultare. Perché la
polizia?Cosa era accaduto?
La governante era rientrata prima del previsto? Elena
aveva ignorato la sua raccomandazione di non disturbare la zia? Scoprendone il
cadavere?! Facendosi prendere dal
panico, come al suo solito? E così lei
non aveva avuto il tempo di sostituire la tazza con il veleno! E interpretare la
parte che aveva imparata a memoria,
«Si», rispose imponendosi la calma«cosa è successo? »
«Venga dentro. Il commissario le
spiegherà».
Lo seguì in
silenzio, il cuore in tumulto. Cosa era andato storto?
Un uomo di mezza età, con un impermeabile blu scuro, le si
fece incontro.
«Commissario Martini» si presentò.
«Mi dispiace doverle comunicare che sua zia è morta.
Assassinata».
La voce era grave, pacata. Il piglio
severo..
« Oh, Dio! ». Giovanna si portò melodrammaticamente una
mano al cuore. Ma non capiva. Come faceva quell’uomo ad asserire che si era trattato
di un omicidio?! La tazza di tisana non poteva essere già stata
esaminata! Forse un odore sospetto? Sbiancò ma resse la commedia.
«E’ orribile… Chi mai può aver fatto una cosa del genere?!
»
Il commissario non le rispose. La prese per un braccio
delicatamente, ma con decisione, pilotandola all’interno della villa.. Dove lei si lasciò condurre passivamente. Tremava, ma si sforzò
di mantenere un atteggiamento controllato. Calma, si disse. Qualsiasi cosa potesse essere
accaduta… doveva mantenere la calma! O si sarebbe perduta con le sue stesse
mani. Cercò di rammentare ogni particolare.
La zia l’aveva congedata nel suo solito tono brusco,
dicendole che, per quella sera, la lettura poteva bastare. Aveva allungata la
mano verso la tazza ma poi l’aveva ritratta appoggiandosi alla spalliera e
chiudendo gli occhi. Ma Giovanna sapeva che l’avrebbe bevuta. L’aiutava a
dormire. Lei se ne era andata silenziosamente. Ed era uscita. Anche se non ne
aveva alcuna voglia. Ma faceva parte del copione.
Al suo ritorno avrebbe fatto scomparire le tracce e dato
l’allarme. La governante era fuori, in libera uscita e come al solito non
sarebbe rientrata che dopo la mezzanotte. In quanto ad Elena, la sapeva
rintanata nella sua camera, a sfinirsi di lacrime sulla sua serata di festa,
andata a vuoto. Cadendo poi in un sonno esausto e profondo.
La signora Ebe era rientrata
prima del solito? Era stata lei a ritrovare il cadavere? E a dire al commissario
che era Giovanna a servire, ogni sera,
la tisana alla vecchia?! La sua mente lavorava febbrilmente. E dov’era Elena?
Perché non era lì?! Possibile che non avesse udito tutto quel
trambusto?!
Il commissario le sedette di fronte su una delle
poltroncine rococò, fissandola pensoso. Sembrava stanco, quasi annoiato Ma lei
non si lasciò ingannare. I suoi occhi la scrutavano intensamente mentre le
poneva le domande di routine.
Cercò di controllare il tremito della voce nel rispondere.
«Abbiamo cenato tutte e tre insieme», incominciò
soppesando le parole.
«Poi mi sono ritirata con la zia in biblioteca per farle
un po’ di lettura, come ogni sera. Dice…diceva che la lettura le conciliava il
sonno. Infatti verso le nove e mezza si è appisolata e allora l’ho lasciata. Ho
deciso di uscire a fare quattro passi.
Nell’ingresso ho incontrato mia sorella. Era un po’ giù per l’ennesima
discussione con la zia a causa del suo fidanzato. La zia non lo poteva soffrire
e aveva proibito ad Elena di continuare quella relazione. Abbiamo parlato un
po’. Poi lei è salita in camera sua ed
io me ne sono andata».
«Non è una bella sera per una passeggiata, non le pare?O l’attendeva
il suo innamorato per festeggiare san Valentino?» le chiese in tono
lievemente ironico.
L’ironia la smarrì,
ma cercò di non confondersi. Un’incertezza, un tremito della voce…quel
commissario non era un pivellino! Si sarebbe immediatamente
insospettito.
«Avevo mal di testa. Ho pensato che un po’ d’aria mi
facesse bene», rispose sostenendo a fatica il suo sguardo inquisitore. Ma non lo
distolse. Poteva essere pericoloso.
« Ed è rientrata solo adesso? »
«Si» rispose decisa.
«Sua zia è rimasta sola in casa? »
«No, come le ho detto, c’era mia sorella. Si è ritirata
nella sua stanza. Era giù di corda per la discussione di prima. Mi ha detto che
avrebbe preso un tranquillante e si sarebbe coricata», mentì.
Elena non le aveva assolutamente manifestate le sue
intenzioni. L’aveva solo vista salire al piano di sopra dove si trovavano le
camere da letto, ma…poteva essere che
invece avesse cambiato idea e voluto riprendere l’argomento con la zia.
Scoprendone il corpo privo di vita. E aveva chiamato la polizia. Tuttavia le
sembrava strano. Era una tal codarda! Non avrebbe mai avuto il coraggio di
riaffrontarla! Non era come lei che
invece…
« Sta mentendo.Sua sorella non
era in casa. E’ uscita molto prima di lei! Per recarsi dal suo fidanzato. Lo ha
testimoniato la governante».
«Impossibile! Era la sua serata libera! Se ne era andata
verso le diciannove e trenta! Stavamo
iniziando a cenare! Sta mentendo! Ed
Elena è rimasta in casa, le ripeto. La zia non poteva rimanere
sola!».
«Perché dovrebbe mentire? ».
«Non lo so. Ma le sto dicendo la verità, glielo giuro!
».
Intuì che il commissario non le credeva. Il suo sguardo
sagace non l’abbandonava. Scosse il capo negativamente.
«La signora non si sentiva bene e non è uscita. Verso le
dieci è scesa per recarsi in cucina a farsi una camomilla. Ha notato la porta
della biblioteca socchiusa e la luce ancora accesa», riprese non tenendo in
alcun conto le sue proteste. E lei non aveva nessuno che potesse confutare le
affermazioni della governante! Smentirla!
Ma c’era un particolare che non quadrava. La signora Ebe aveva asserito di aver trovata la porta della biblioteca
accostata, mentre lei era sicurissima di averla ben chiusa dopo aver lasciato la
vecchia!
«La governante è entrata e ha trovato sua zia riversa
sulla sedia a rotelle. Morta. E abbiamo ritrovato questo. In un cassetto della
sua scrivania».
Le mostrò un taccuino dalla copertina
scura.
« Lo riconosce? ».
No. Giovanna non l’aveva mai visto né ne aveva mai
supposta l’esistenza.
« Il suo diario», la voce del commissario era
glaciale.
Un diario?! Si
sentì soffocare.
«Sua zia temeva di essere uccisa e proprio da lei
signorina Giovanna»,
Non riusciva neppure più ad udire la voce del commissario.
Fu il silenzio a farla ritornare in sé.
Il commissario taceva. Come in attesa. I suoi occhi la scrutavano freddi,
accusatori, implacabili. E Elena? Dov’era Elena?! Ma cosa importava ormai! La
sua sorte era segnata…. Il diario! Il maledetto diario! Ignorava che la zia ne
tenesse uno.
Il granello di sabbia in un ingranaggio
perfetto!
«Basta! », gridò infine con una voce stridula, sconosciuta
a lei stessa
«Se conosce già la verità perché continua a tormentarmi?!
Va bene, l’ho uccisa io! La detestavo. Era perfida, odiosa! Ero stanca della sua
tirannia, di dover mendicare il pane!Lei non sa cosa
abbiamo dovuto sopportare, Elena ed io, in tutti questi anni!»
Il commissario ebbe un’espressione soddisfatta. Sembrava
il gatto che avesse finalmente acchiappato il topo.
«Va bene. E adesso
mi dica dove ha nascosto la rivoltella».
« La rivoltella?! ».
Giovanna lo fissò senza capire. Attonita.
«Su, adesso non si metta a fare la commedia!
».
«No, io…io non le ho sparato. Io…».
Giovanna ebbe un singulto.
«Io…le ho versato del veleno nella tisana che prendeva
tutte le sere! ».
«Avvelenata?! Cosa si sta inventando adesso?! Sua zia è
stata uccisa da un colpo di arma da fuoco! Una calibro ventidue per l’esattezza.
E non c’era alcuna tazza con tisane di qualsiasi genere accanto a lei!
».
Giovanna vacillò. Una calibro ventidue? La sua rivoltella!
Che un giorno aveva acquistato perché aveva sempre avuto il terrore dei ladri.
La villa era isolata e loro erano donne sole! Chi…?
Solo Elena sapeva della sua esistenza! La sua pavida, tremebonda sorellina! Che
l’amava, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per…
Elena doveva
averla spiata, averla vista versare il veleno nella tisana. E aver comprese le
sue intenzioni.
Allora era tornata in biblioteca. La zia probabilmente era
ancora assopita. Aveva fatto scomparire
la tazza che avrebbe potuto incriminare Giovanna. Elena! Il suo spaurito
coniglietto! Che aveva cercato di
simulare una rapina! Ma da sciocca qual’era non aveva
pensato a mettere a soqquadro la stanza per rendere più verosimile la scena. In
quanto alla signora Ebe…lei adorava
Elena!
La verità le apparve all’improvviso nitida e sconvolgente.
La governante aveva mentito per amor suo! Asserendo che Elena non si trovava in
casa al momento del delitto. Per proteggerla da qualsiasi
sospetto!
Elena, la sua cocca, che avrebbe continuato a difendere ad
oltranza. Giurando il falso anche in tribunale, se fosse stato necessario. Come
aveva fatto con il commissario. E non si sarebbe smentita.
Chiuse gli occhi rovesciando il capo all’indietro contro
la spalliera imbottita della poltroncina rococò, con una risata da pazza che
echeggiò stridula e sinistra nel silenzio del salotto.
ROSE
ROSSE, PERLE E CUORI INFRANTI
di
Patrizia Ferrando
Gli
assassini hanno spesso un loro stile particolare o una ferocia bruciante,
talvolta si distinguono per una sorta di astuzia ipnotica, in qualche caso
sfoggiano un macabro senso dell’umorismo, ma di rado posseggono il dono
dell’opportunità. Ora- si chiede il Commissario Bassi- perché doveva saltar
fuori un omicidio proprio sul finire dell’orario d’ufficio, il 14 febbraio,
quando lui non ha comprato un regalino alla moglie? Approssimarsi alla scena del
delitto, e notare, nell’ingresso della casa della vittima, un mazzo di rose
rosse con un bigliettino apparentemente intonso, insieme alla rapida
registrazione mentale del dato, segna un aumento della sua stizza. Certo da
sempre che, per San Valentino, i fiorai aumentino il prezzo delle rose, l’anno
scorso è stato tanto incauto da formulare questo pensiero ad alta voce, davanti
alla moglie: è lei ha colto l’opportunità per rimproverarlo, suggerendogli
ironica che, se le regalasse fiori almeno in un’altra occasione in dodici mesi,
potrebbe avere conferma o smentita della sua teoria.
C’è
un gran silenzio: nella palazzina ci sono in tutto quattro abitazioni, ma una è
sfitta, mentre gli inquilini delle altre due sono al momento fuori
casa.
L’appartamento
della vittima, un assicuratore, celibe, in pensione, non è in disordine. Basta
uno sguardo superficiale, però, per restare colpiti da diversi gioielli, alcuni
forse di grande valore, sparsi sul tavolo della cucina; su un mobile vicino ci
sono due bicchieri, su uno spicca una curvilinea traccia di rossetto. Quanto al
defunto Arturo Nardelli, giace supino sulla soglia della camera da letto, con le
gambe non lunghe a ingombrare il corridoio. A scoprire il cadavere, ancora
caldo, è stata la sorella di Nardelli, poi colta da malore e accompagnata in
ospedale; aveva aperto col suo mazzo di chiavi, non vi era alcun segno di
effrazione. Poche pugnalate, e poco sangue. Il colpo letale sembra averlo
colpito in modo repentino al cuore, ed esser stato seguito da tre incerte,
confuse coltellate superficiali. L’arma del delitto è già stata recuperata: un
pugnale dal manico lavorato, un oggetto alquanto kitsch, con ogni logica
proveniente da un ripiano zeppo di souvenir, che il medico legale guarda con
riprovazione, forse più per l’orribile gusto che per la valenza di portatore di
morte. Bella donna, questa dottoressa, pensa ancora il commissario. Di sicuro
deve avere qualche programma piacevole per la serata, vorrà sbrigarsi ad
andarsene.
*
Era
la Contessa di Castiglione, la dama che si ritirò dal mondo e velò gli specchi,
per non mostrare, e non vedere lei stessa, l’inesorabile decadimento della sua celebrata
beltà?
Jolanda
se lo chiede con una punta di stizza, tentando di sistemarsi i riccioli in modo
che non appaiano troppo radi. Non saprebbe dire se a renderla più nervosa sia
l’incertezza della memoria, o il poco confortante riflesso del suo viso, nel
tardo pomeriggio ancora invernale.
Il
suo fascino non avrà varcato i confini e segnato la storia, ma è stata comunque
ammirata, corteggiata, ha imparato fin da ragazzina come utilizzare una sana,
rivendicata dose di civetteria. E anche se è sola in una casa che guarda
sbiadire- o che la guarda mentre sbiadisce?-intende vestirsi per bene prima di
cenare.
Ancora
pochi anni fa, riusciva a sentirsi piena di charme, se non proprio seducente. Non ha abbandonato le
scene rassicuranti dei “soliti giri”, pur avendo, sempre più spesso, l’amara
sensazione che incontri e abitudini si disgreghino come tessuti consunti.
Ma
la novità- così è stata definita da sua figlia- nella persona di Eva, che bussa
lieve alla porta ogni mattina alle nove, prima di aprire con la sua copia delle
chiavi, è piombata come inoppugnabile indizio che una soglia di non ritorno è
stata raggiunta. Chissà se quella piccola oca dai capelli carota stasera cadrà
tra le braccia di un donnaiolo in disarmo, fattosi forte di moine valentiniane.
Da
una sussiegosa foto in bianco e nero- scattata in uno studio fotografico, non
un’istantanea- ammicca la signorina Jolanda, ventenne curiosa del mondo, anche
se imbrigliata in tante formalità. L’autonomia vera, determinazione, pensiero,
azioni, l’ha scoperta molto tardi, come un piacere segreto e euforizzante; e
adesso, la sente minacciata fin nelle inezie. Sembra chiedere all’altra Jolanda,
invecchiata e nervosa, come mai si è trasformata in strega acida, e bolla
impietosamente Eva, o al massimo la ignora.
La
ragazza che mi aiuta: così Jolanda allude a Eva, parlando con le vicine, con la
portinaia, o durante qualche telefonata alle amiche. Una badante è, a suo
parere, riservata ad altri, e “donna di servizio” suona piuttosto
antidemocratico e obsoleto.
“Vengo
di Moldavia”, cinguetta Eva a qualcuno- una voce maschile!- che sul pianerottolo le domanda se è russa o
rumena. Perché non si sbriga, perché non entra e chiude la porta? Jolanda si
china in avanti, per sentire meglio, mentre ancora tenta di allacciarsi il
fidato filo di perle: nemmeno l’udito è più impeccabile.
Un
gesto brusco, e la collana si rompe, rovesciandosi in rivoli saltellanti sul
pavimento. Una signora, certamente, non impreca; muove una mano a mezz’aria, si
volta...e cade, scivolando su uno fra i suoi trent’anni di matrimonio. Nozze di
perla, aveva sottolineato Armando, tanto tempo prima. Poi, però, era morto, e la
moglie non può accusarlo, se la spalla le duole per il colpo.
In
qualche modo, si appoggia alla poltrona, accorgendosi che, per rialzarsi, deve
elaborare una strategia; non riesce semplicemente a tirarsi su, come avrebbe
fatto una volta. Non urla, non chiama. Da quella scomoda posizione, intende
come una nuova geografia si disegni nella stanza. Il comò è
inespugnabile, il comodino traballante, il copriletto piuttosto insidioso, a
causa della stoffa lucida e delle tante piegoline. Ecco, ora ha trovato il modo
di raggiungere il cuscino di velluto, per sedersi. Tira il fiato; tra affanno e
indolenzimento, guarda le sue preziose perle disperse per la stanza, e le paiono
giorni che ha sprecato, aspettative deluse, entusiasmi irreparabilmente svaniti.
“Signora!!...che
è successo?”. Eva, senza quasi aver oltrepassato la porta, è già inginocchiata
sul pavimento, tenta di raccogliere tutto; tiene, per un attimo, ogni perla nel
palmo della mano, quasi con stupore. Mormora parole liquide, rossa in volto.
Jolanda, con poco fiato, l’apostrofa come lenta e distratta: è mai possibile
impiegare tanto tempo per comprare un panetto di burro? Poi, rincara la dose:
“Credevo di esser stata chiara. Non mi piace che tu dia confidenza a uomini
estranei, e lo dico anche per il tuo bene. Non provare a negare, ho sentito”.
Uno strano bagliore al di là delle tende di pizzo, però, rende conscia la
padrona di casa di come le imposte siano rimaste aperte- altra mancanza di
Eva!-tuttavia discuteranno in seguito di tali negligenze. La luce blu
lampeggiante dimostra che qualcosa di grave deve essere accaduto, nel loro
piccolo isolato di palazzine rosa antico.
*
“La
vittima conosceva il suo assassino” non è certo un titolo originale in cronaca
nera; non che lo sia “Delitto a San Valentino”, che per di più rimanda a
situazioni passionali, tragedie d’amore e morte, al massimo reminescenze di gangster, non all’accoltellamento di un
assicuratore grigio e solitario. E il direttore ci tiene ai titoli ad effetto,
un giornale locale vive anche di questo. Così Giacomo, redattore sempre pieno di
impegni con “amiche”, ma rigorosamente estraneo ai fidanzamenti, in una fredda e
zuccherosa sera di febbraio, appesantita dal mal di testa e da un dj che alla
radio si spendeva nella top 50 delle canzoni d’amore degli ultimi decenni, ha
optato per “Non è stata una rapina. Pochi indizi e un mazzo di rose rosse”. Ora,
nel mattino terso, è a caccia di approfondimenti, o, con un po’ di fortuna,
della svolta verso la soluzione del caso. Queste cittadine di pianura, né grandi
né piccole, non sono fatte per i delitti irrisolti: dapprima la gente si
incuriosisce anche troppo, per poi iniziare ad allarmarsi, ad alimentare
fantasie balorde, e un colpevole bisogna scovarlo. Il pugnalato Nardelli non
offre grandi spunti narrativi: niente famiglia o relazioni, conoscenze
superficiali, pare ereditate dal passato lavorativo, nessuna eccentricità o stravaganza su cui far
leva, solo abitudini grigie e consigli che elargiva sul come adempiere a noiose
pratiche burocratiche.
Tra
i vialetti, davanti alla casa del delitto, sono parcheggiate tre auto della
polizia, e si aggirano inquirenti e cronisti, ma ad attirare lo sguardo di
Giacomo è una ragazza bionda, collo da cigno e spalle curve, stretta in un
cappotto grigio e con le mani in tasca. Le si avvicina, e, con un sorriso di cui
usa deliberatamente il fascino, le domanda se vive in quella zona. Lei scuote la
testa: “No, qui vive una cara amica di mia nonna, siamo abbastanza preoccupati
per lei, la consideriamo di famiglia…mi scusi”. La ragazza si allontana,
comunque Giacomo non ha tempo di rammaricarsi, un trambusto richiama la sua
attenzione. Domani il giornale titolerà a piena pagina “ Omicidio di San
Valentino: s’indaga su una giovane moldava”.
*
“Non
ci posso credere” “Non è possibile” “Chi poteva immaginarlo” “Pensare che te
l’abbiamo portata in casa”. La figlia, il genero e le cognate di Jolanda
ripetono ciclicamente le stesse frasi, con minime variazioni, mentre Jolanda e
Alice, la nipote della sua amica più cara, tacciono, tenendosi per mano.
L’anziana vorrebbe rimproverare se stessa, perché, ora che per Eva si prospetta
addirittura un’accusa di omicidio, invece di pensare di averla sempre
considerata inadeguata, se non sospetta, o sentirsi sconvolta per le ore
trascorse con la presunta assassina, prova pietà: chissà in che guai si era
messa quella ragazza, chissà se avrebbe avuto bisogno d’aiuto, di ascolto,
comprensione, consigli.
La
giovane, a sua volta, trova piuttosto inappropriato continuare a pensare agli
occhi verdi di quel tipo, quello che forse pensava che non si vedesse a centinai
di metri di distanza che era un giornalista, eppure sembrava
simpatico.
Eva
è stata vista uscire dal portone della villa quadrifamiliare dove risiedeva
Nardelli ad un’ora compatibile con quella del delitto, proprio quando Jolanda le
aveva chiesto di andare a comprare il burro; sul biglietto allegato al mazzo di
rose stava scritto “Per Eva, tentatrice”. E, ancor peggio, nella tasca del
giubbotto la ragazza nascondeva due bracciali di foggia antica, affini ai
preziosi ritrovati sul luogo dell’assassinio. Eva ha negato, pianto, ma non
nasconde di essere stata nell’appartamento di Arturo Nardelli.
C’è
già chi mormora del sessantenne sedotto e turlupinato dalla biondina venuta dall’Est, e per molti è
come se la condanna fosse ormai pronunciata.
*
Il
piccolo chiosco di fiori emana già atmosfere primaverili. Sono arrivati i
ranuncoli, tulipani dai colori teneri, roselline in tinte pastello. Alice ha
fatto confezionare un piccolo bouquet, Jolanda vuole un omaggio grazioso per
Eva, però con l’aria frizzante non si è sentita di uscire per ordinarlo di
persona.
Giacomo
non riesce a reprimere un sorriso, vedendo quella ragazza bionda, tanto diversa
dal novero delle sue troppe amiche, avanzare verso di lui con le mani piene di
fiori. “Se fossi un romantico” pensa “la paragonerei alla primavera” e qualcosa
gli dice che invitarla a cena, e provare così
a uscire da certi schemi sicuri e tristi, sia un’idea fortunata, come il
venticello che sa di pollini nuovi e
promesse.
Il
commissario sorride, e per lui è raro. Pareva difficile credere a quella Eva, ma
le sue impronte non erano sul coltello, e il DNA sul bicchiere macchiato di
rossetto incompatibile col suo; la giovane moldava a trascorso giorni
abbozzolata in un mutismo disperato, per poi esplodere in un profluvio di
lacrime e spiegazioni. Nardelli era cadavere sul pavimento, quando lei era
arrivata: da settimane la corteggiava in modo in parte allusivo, in parte
grossolano, ma lei lo aveva conosciuto, su segnalazione di un’altra badante
della zona, perché voleva mandare più denaro alla sua famiglia, e per ottenerlo
non possedeva che i due antichi braccialetti. Con recenti risparmi, intendeva
ricomprarli. Vedendo i gioielli sparsi sul tavolo, se li era ripresi, per poi
fuggire.
L’inchiesta
ha preso la strada dei negozi “compro oro” e del sottobosco di personaggi che vi
gravitano intorno: ed è emerso uno pseudo socio di Nardelli, l’assassino.
Impugnare quel coltello era stato il culmine di una lite, causata da una
scoperta per lui intollerabile: Arturo donava parte dei gioielli comprati
sottobanco a donne di cui sperava di ottenere i favori, in particolare intendeva
regalare una collana di perle all’ultima fiamma.
Non
è più San Valentino, e il Commissario Bassi va a comprare un mazzo di rose
arancio, il colore prediletto da sua moglie.
Murder,
San Valentino 1925
di
QRISTAL1965
PROLOGO
Lysanne
Adams scese dall'auto della polizia, davanti al distretto. Una folla di
giornalisti la circondarono, prima che la polizia la scortasse all'interno.
-
Oggi è il giorno di San Valentino... non è molto romantico uccidere il proprio
marito, non crede?- le fece notare un giornalista con malcelata
cattiveria.
-
Se il giorno di San Valentino, un uomo sposato sta pensando alla sua amante e
non vede l'ora di stare con lei, regala alla moglie una misera cena e un volgare
bracciale per pulirsi la coscienza, e se questo marito si comporta così
da sei anni, non vedo cosa ci sia di romantico in questo. Non mi lasciava
libera ma non mi voleva più. E io volevo esser libera.- rispose prontamente.
Delle giornaliste applaudirono. Da quel momento, le donne di Chicago si
schierarono con Lysanne.
La
polizia, dopo aver perquisito l'appartamento, il tenente Carrick aveva intuito che la donna era scappata. Aveva così
mandato delle pattuglie alle stazioni sia dei treni che dei bus dove finalmente
un agente l'aveva avvistata fra la gente. Il poliziotto aveva così avvertito gli
altri poliziotti appostati nella stazione e l'avevano circondata. Lei non aveva
opposto resistenza e i poliziotti si erano mostrati molto gentili con lei. Un
poliziotto in borghese le letto i suoi diritti. Nella valigia le avevano trovato
la pistola. Era inutile negare. Ma anche se doveva andare in prigione, si
sentiva comunque libera. Aveva ucciso un gangster pericoloso, magari le
avrebbero diminuito la pena pensò, cercando di farsi coraggio. Confessò il
delitto, al tenente Carrick e al sergente Singer,
entrambi rimasero colpiti dalla sua calma. Eppure non era una fredda assassina.
ANTEFATTO;
Mancavano due giorni a San Valentino, quando Lysanne Adams scoprì che suo marito la tradiva da alcuni mesi con una flap girl e ballerina del Carrabee, locale alla moda che apparteneva proprio a Fulmine Blue alias Martin Adams. Suo marito. Andava molto di moda affibbiare quegli appellativi. Fulmine, per la rapidità nel concludere gli affari e per il modo in cui eliminava i suoi avversari, ovvero con una scarica elettrica appena si sedevano su una poltrona molto invitante. Blue, per i suoi occhi blu incredibilmente belli ma anche molto glaciali.
Mancavano due giorni a San Valentino, quando Lysanne Adams scoprì che suo marito la tradiva da alcuni mesi con una flap girl e ballerina del Carrabee, locale alla moda che apparteneva proprio a Fulmine Blue alias Martin Adams. Suo marito. Andava molto di moda affibbiare quegli appellativi. Fulmine, per la rapidità nel concludere gli affari e per il modo in cui eliminava i suoi avversari, ovvero con una scarica elettrica appena si sedevano su una poltrona molto invitante. Blue, per i suoi occhi blu incredibilmente belli ma anche molto glaciali.
Martin
era molto temuto, lui e la sua banda 'gestivano' la zona est di Chicago. Ma gli
affari del coniuge non le importavano,
non le mancava nulla, solo un uomo. Il suo uomo.
Era
l'ennesimo tradimento di suo marito, lui liquidava le sue scenate di gelosia
dicendole che quelle, in fondo, erano solo avventure. Niente di serio. Che amava
lei. Bugie. Se l'amava non l'avrebbe tradita. Le altre donne, le sue amiche le
avevano detto che tutti gli uomini erano così. Ma lei non ne poteva più. Stava
troppo male.
Lei
gli aveva comprato, come regalo di San Valentino, un bellissimo orologio da
taschino, e lui come la ripagava? Con un tradimento e un bracciale di diamanti
per pulirsi la coscienza. Ne aveva abbastanza. Aveva provato a fuggire da lui,
ma Martin l'aveva trascinata a casa e non l'aveva fatta uscire per una
settimana.
Ne
aveva abbastanza di quell'uomo egoista e prepotente.
Non
lo amava più, non si fidava più di lui. Che tristezza non poter più festeggiare
con lui quella romantica festa …
Quel
pomeriggio, si recò al banco dei pegni, nella borsetta aveva un paio di preziosi
orecchini sperava cosi di poter procurarsi una pistola in cambio dei gioielli.
Non sapeva se era in grado di usarla, ma non aveva modo di provarla prima.
Avrebbe sparato tutti i colpi, avrebbe ucciso quel verme senza cuore.
Quella
sera, indossò un abito elegante e andò nel locale del marito. Tutti furono
sorpresi di vederla.
Uno
dei camerieri, corse nei camerini ad avvertire il padrone del locale, era
certo di trovarlo con Shirley, la bellissima e spregiudicata flap
girl.
Davanti
alla porta c'era uno dei guardia spalla di Adams.
-
devo avvertire il tuo boss-
-
un momento, io l'avverto. E spero che sia cosa importante. Tu, invece,
sparisci-
-
c'è sua moglie qua.-
-
molto importante. Bravo, ora svanisci e in fretta.-
Big
Head Foster bussò alla porta del camerino. Shirley aprì. Indossava una vestaglia
molto vaporosa e lasciava poco all'immaginazione.
-
devo dire una cosa a Martin-
Fulimine
Blue apparve alle spalle della donna.
-
dimmi Big Head-
-
tua moglie è qua-
Fulmine
Blue Adams diede un pugno contro il muro quindi riprese il
controllo.
-
spero non le avrete detto che sono qua. Ditele che sono con Bad Horse Masters-
-
va bene capo-
Shirley
si avvicinò al suo amante.
-
fra due giorni è San Valentino... ci sarai? Cosa mi regali?-
-
potrò venire con te un po' più tardi, non posso lasciarla sola, capisci? Il
regalo ti arriverà quella sera. Quando arriverò dovrai indossare solo quello.
-
Lysanne
fu liquidata con una fredda frase di circostanza.
-
non c'è mi dispiace, è nel distretto sud della città... con Bad Horse Masters-
-
come siete bravi a coprirlo- e, disgustata da quella complicità, tornò a casa.
Il
giorno di San Valentino, quella sera, Martin stava parlando con il cameriere che
aveva portato l'elegante cena, mentre Lysanne si stava
vestendo, nell'allacciarsi la collana, vide dalla finestra della camera, delle
auto arrivare nel garage di fronte a casa sua. Non era la polizia e il garage
doveva esser chiuso da almeno due ore.
Aprì
la finestra, e uscì sul balcone da cui si passava sulla scala
antincendio. Scese rapidamente, togliendosi le scarpe. Vide così la scena. Due
bande di gangster che si fronteggiavano, gli uomini di una banda tenevano le
mani alzate. L'altra banda impugnava dei mitra.
Lysanne
tornò rapidamente in camera. Prese la pistola e la mise nella tasca del vestito.
Uscì
dalla camera e si avvicinò al marito. Lui le porse la scatola di velluto della
gioielleria, dentro c'era il bracciale che lei aveva già visto.
-
pensi di far tacere la tua coscienza in questo modo, Marty?-domandò, con tono di
riprovazione.
Martin
la guardò confuso, dov'era finita la sua dolce e ubbidiente Lysanne, la sortita al night club di due sere prima, lo
avevano allarmato non poco.
-
Lysanne... cosa stai dicendo? Oggi è San Valentino no?
È la festa degli innamorati... e tu meriti questo mio dono... -
Lysanne
si spostò verso la finestra e l'aprì. Lui non capiva quel suo movimento. Si
sarebbe presa un malanno, con quell'abito da sera così leggero. Era metà
febbraio e faceva molto freddo. Lei tornò a guardarlo e infilò una mano in
tasca.
-
hai un bel coraggio a dire che oggi è la festa degli innamorati, sai bene che
io e te non lo siamo più e forse non lo siamo mai stati. Ogni anno per San
Valentino, mi hai regalato gioielli, per toglierti il peso di dosso, il peso
della colpa del tradimento. Ma stavolta sarà un San Valentino diverso. Molto
diverso, inaspettato. Io potrò ancora festeggiarlo, tu no. Voglio esser libera e
lo sarò ora. Da ora- Lysanne aveva parlato con estrema
calma, per non tradire le sue emozioni, per soffocare l'ansia che comunque
provava.
In
strada stava avvenendo uno scontro a fuoco con due bande rivali. Nello stesso
momento, Lysanne puntò la pistola addosso a Martin
vedendolo spostarsi verso la finestra, incuriosito dagli spari. Ma lei, appena
iniziò a sentire il rumore delle mitragliatrici più vicino alla loro palazzo,
iniziò a far fuoco contro il marito che, distratto dagli spari in strada, era
rimasto immobile. Fu colpito tre volte al cuore, due al ventre, e due alla
testa. Lysanne non pensava di riuscire a essere
tanto precisa, non pensava di avere una mano tanto ferma. Lo guardò,
senza provare rimorso, ciò la sgomentò non poco, più del pensiero di finire
arrestata per ciò che aveva fatto.
Nessuno
aveva fatto caso ai suoi spari. Si erano avvertiti più chiaramente solo i
colpi sparati con le mitragliatrici, per la polizia ci sarebbe stata solo la
strage nel garage e lo scontro a fuoco in strada. Nascose la pistola fra due
maglioncini, si cambiò di abito buttandoli in valigia e se ne andò da
quell'appartamento per sempre, dopo aver preso la scatola della gioielleria con
il bracciale di diamanti.
Ci
volle molto tempo per trovare un taxi. La via era intasata dalla polizia e
inoltre era la festa degli innamorati, e molte persone uscivano a cena. Lui,
invece, cosa le aveva offerto quella sera? Una cena in casa loro, come se si
vergognasse di portarla in un bel locale. No, lui voleva cenare, e con una scusa
andarsene a metà serata, come aveva sempre fatto. Lasciandola sola la sera più
romantica dell'anno.
Era
l'ennesima mancanza di rispetto, ed era, purtroppo, la goccia che fa traboccare
il vaso.
Riuscì
finalmente ad arrivare alla stazione dei bus e prendere un biglietto per Los
Angeles. Basta freddo. Basta gangster e malavita. Non scappava per non andare
in prigione, ma per rifarsi una vita molto lontano da quella soffocante e fredda
città.
Nel
frattempo, a un paio di chilometri da casa Adams, Shirley attese a lungo, con
indosso solo la pelliccia. Il suo amante però non arrivava. Le aveva promesso
un San Valentino indimenticabile. Il regalo favoloso presagiva una serata di
lusso sfrenato. ' be' sono solo sole le undici- pensò scrollando le spalle. La
notte era ancora lunga. Attese ancora un po', sorseggiando piano dello
champagne.
A
mezzanotte iniziò a inquietarsi. Cosi Shirley si vestì, e andò ad informarsi da
Big Head su come mai Martin non era ancora arrivato.
Nessuno
l'aveva visto lì al Carrabee e l'autista non era stato
richiamato da Adams. Big Head ebbe un brutto presentimento. Decise di andare a
casa dell'uomo. Pensò che forse Lysanne Adams non
l'aveva voluto lasciare andare il suo uomo, era la sera di San Valentino e lei
non voleva restar sola. Era del tutto plausibile. Ma... Fulmine Blue riusciva
sempre a divincolarsi dai doveri coniugali. Bussò alla porta dell'appartamento.
Non rispose nessuno, né avvertiva dei rumori all'interno. Mentre stava per
entrare nel portone, alcuni minuti prima aveva osservato la polizia delimitare
la zona, cosi aveva saputo da un poliziotto della strage nel garage. Bene, una
banda in meno a contendersi la città e gli affari. Ora il suo capo poteva
prendersi anche il distretto sud. Ma non sapeva cosa stava per scoprire.
Sfondò
la porta e rimase annichilito. Disteso a terra, nel centro della stanza, c'era
il corpo senza vita di Fulmine Blue. Il viso e il torace erano coperti di
sangue. Era stata lei, l'unica persona che il suo boss non temeva, l'aveva
ucciso. Era stata la moglie.
Dovette
avvisare la polizia del delitto. Mentre scendeva le scale, però, e lacrime gli
riempirono gli occhi, la vista gli si annebbiò. Si sedette pesantemente sui
gradini.
Con
i suoi collaboratori, Fulmine Blue era sempre stato più di un amico, un
fratello, comprensivo, sempre molto gentile e paziente. Certo, aveva il
riprovevole vizio delle donne, ma era del tutto normale in un uomo avere delle
avventure occasionali con molte donne.
Lysanne
doveva essere più tollerante con il marito.
Si
avvicinò all'ispettore Philip Stone, sua vecchia conoscenza. Gli raccontò cosa
aveva scoperto e chi poteva esser l'assassino.
Finale
Sette
anni dopo, Lysanne Milford,
ex signora Adams, uscì di prigione per buona condotta e per aver collaborato con
la polizia. La neve scendeva lentamente, i fiocchi erano grandi. Si fermò
davanti a una vetrina, decorata con cuori rossi. Mancavano due giorni a San
Valentino. Entrò nel negozio e acquistò un cuore e un po’ di cioccolatini. A
casa l’attendeva Bartlett Simmons, direttore del carcere in cui era stata. Non era
particolarmente bello come Martin Adams, ma era buono e comprensivo. Le stava
ridando quella fiducia negli uomini, che il marito aveva ucciso dentro di lei
anno dopo anno, e ogni 14 febbraio, a San Valentino.
Una
notte mozzafiato.
Di
Joy Trent
Era
una notte buia e tempestosa. La pioggia batteva a ritmo sostenuto sugli infissi,
con gocce grandi, miste a grandine. Il vento ululava a più non posso, rimestando
persino le ceneri del camino, ormai spento.
Lisa
tremava sotto le coperte, più per la paura che per il freddo. Lo stesso timore
l’aveva inchiodata a letto, quando un fulmine e uno scroscio turbinante le
avevano spento il camino e mostrato la stanza decadente, tetra e
terrificante.
L’idea
di sedurre Tom in quel vecchio castello, non era più romantica ed
eccitante.
Appena
arrivata lì, diverse ore prima, aveva pensato che l’agriturismo fosse proprio
ciò che sognava. All’esterno aveva tutta l’aria diroccata di un vecchio maniero,
persino le torri e le feritoie sembravano originali del primo medioevo. Era
stata sicura della sua scelta, finché alcune osservazioni l’avevano portata al
cinico pensiero che fosse tutto preparato per far colpo sui clienti: quando era
entrata nella camera, la suite luna di miele nientemeno, aveva constatato che
tutto era, per davvero e senza eufemismi, dell’età della
pietra.
Aveva
speso un botto e mezzo, per organizzare quel S Valentino fuori norma. Ora
disperava persino che il suo amante riuscisse a trovare il
posto.
«Speriamo
soltanto che il suo contrattempo sia lavorativo.»
Il pensiero aveva appena
preso forma nella sua mente, che lo scacciò. Non doveva ricadere nella solita
trappola della gelosia. Tom era innamorato di lei e meritava
fiducia.
Erano quasi le dieci e
sembrava notte fonda. Non che in inverno il crepuscolo fosse tardivo, però
iniziava davvero a temere di dover trascorrere la notte da sola. In quel luogo
dimenticato da dei e uomini. Perfetto per un delitto.
Il
solo pensiero fece aumentare il suo tremore.
Ormai
quasi batteva i denti.
San
Valentino horror, altro che “un sogno d’altri tempi”, come aveva scritto sul
biglietto per il fidanzato.
Si
doveva essere assopita. Non c’erano più rumori di tempesta, ma neppure traccia
dell’uomo.
Guardò
l’orologio da polso, non si fidava della vecchia pendola sul camino. Non batteva
neppure le ore. Erano le 23.30. Era ancora il giorno degli innamorati e lei
continuava a essere sola.
Aveva
fame però. Non c’era più motivo di non cercare qualcosa da mettere sotto i
denti. La cena romantica ormai era sfumata, almeno poteva zittire lo stomaco. In
mezzo al trambusto di prima, non ci aveva fatto troppo caso, ma adesso sentiva
di avere un drago annidato nella pancia.
Per
non sembrare una poco di buono, decise di non scendere con la sola vestaglia a
coprire il négligé, ma si vestì di tutto punto. Del resto non aveva portato capi
comodi, solo l’elegante tailleur per far colpo sul gestore e avere quella
suite.
Per
le scale non avvertì alcun rumore, a parte il leggero scricchiolio prodotto dai
suoi passi. Però era buio pesto. E non c’era neppure elettricità. Qualcuno di
quei fulmini spaventosi doveva aver provocato danni. Si aiutò un po’ col
cellulare, giusto per non sbattere in un pilastro, o un muro imprevisto. Stava
pensando di approfittare dell’incursione in cucina, per chiedere anche una
candela, quando inciampò. Rotolando dagli ultimi scalini, batté la testa e per
pochi attimi si sentì confusa e spaesata.
C’era
qualcosa di grosso,che ostacolava il passaggio a circa
metà dell’ultima rampa, che lei però non aveva notato, dato che aveva sollevato
la luce verso l’atrio ormai vicino. Era una forma trasversale. La fioca luce che
aveva a disposizione le mostrava un essere umano, in diagonale sugli scalini,
con la testa più in basso rispetto ai piedi e
in una posa innaturale.
Stava
cercando di capire se potesse essere il direttore che l’aveva accolta
all’arrivo, o il cameriere che l’aveva accompagnata alla stanza, quando le luci
si accesero, accecandola leggermente e una gran folla invase
l’atrio.
-
Luigi raduna tutto il personale, voglio sapere se ci sono
testimoni.
Sentì
una voce dura, scuoterla nel profondo. Dava ordini a qualcuno, che però al suo
orecchio non avevano molto senso. Si riprese completamente dal lieve torpore.
Tornò vigile e attenta a cogliere ogni minimo particolare. L’avvocato prese in
lei il sopravvento e iniziò a esaminare con più attenzione il corpo. Era alto e
robusto come aveva supposto e dal fisico aitante, adatto alle ipotesi fatte
prima ma anche a qualcun altro… qualcuno che doveva arrivare lì da lei ore
prima.
-
Avvocato Anceri la dichiaro in arresto per l’omicidio
di Tommaso Acuito.
Solo
allora si rese pienamente conto di essere stesa sul corpo senza vita dell’amato.
Non presentava ferite d’arma da fuoco o altro tipo, solo sulla scala c’erano
tracce scure di liquido appiccicoso. Doveva essere sangue.
Il
vero colpevole era il temporale, sicuramente, ma lei come avrebbe fatto a
provarlo? Non aveva alibi né testimoni. E proprio qualche giorno prima avevano
litigato furiosamente, per una stupida questione di gelosia. Era avvenuto allo
studio, dato che erano colleghi, dove Tom aveva manifestato troppa simpatia per
la nuova praticante. Ma avevano chiarito tutto, a casa da
soli.
Tutte
le testimonianze sarebbero state contro di lei. Inoltre nessuno sapeva di quella
serata romantica.
Solo
un miracolo avrebbe potuto salvarla.
Proprio
quando stava per crollare, preda della sfiducia e della debolezza, il direttore
dell’agriturismo fermò all’ispettore.
-
Ispettore Argenzi, mi creda, la signorina non può
essere colpevole. E’ stata tutto il tempo nella sua stanza e c’è una
registrazione a comprovare la cosa.
-
Luigi non c’è bisogno che mi dai del lei. Se quello che dici è vero, allora la
soffiata che abbiamo avuto era una truffa. Deve essere stato il vero assassino.
E adesso so anche chi è.
Dallo
scambio di battute dedusse di avere ancora una speranza, anche abbastanza salda.
E allora cominciò a intravedere le varie incongruenze di tutta la situazione. E
il Perry Mason che era in lei prese la ribalta.
- Ispettore
chi l’ha avvisata della presenza di un morto qui al “Castello dei fiori”? E come
faceva a essere certo che io fossi l’avvocato Anceri?
- Come stavo
anticipando al mio amico Luigi, il direttore Aldovici,
ho una vaga idea di come sia stata orchestrata questa trappola e anche da chi.
Prima di rivelarle i dettagli però avrei bisogno che rispondesse alle mie
domande – l’ispettore Teodoro Argenzi aveva capito
subito che tiretto era l’avvocato, ma sapeva anche che poteva crollare da un
momento all’altro. Il dolore nei suoi occhi era chiarissimo, quindi meglio
irritarla che compatirla.
La mente di
Lisa si schiariva ogni momento di più. Decise di accantonare un attimo il dolore
per la perdita del fidanzato e concentrarsi sull’aiuto che poteva fornire alla
giustizia. Ci sarebbe stato tempo per disperarsi.
- Ispettore
ha già predisposto per l’autopsia? Perché forse sarebbe il caso di fare un test
tossicologico anche a me.
- Avvocato
Anceri si calmi. Le indagini le seguo io e le assicuro
che sarà facile arrestare i colpevoli. Ora però metta da parte il professionista
del crimine e lasci rispondere la signorina Lisa. Tommaso Acuito era il suo
fidanzato?
- Sì – la
voce di Lisa era diventata di colpo flebile. Nel rimbrotto del poliziotto aveva
letto quello del proprio cuore.
- Va bene,
meglio agguerrita che lacrimosa. Se le prometto di accompagnarla al laboratorio
per le analisi e di aggiornarla sulle indagini, risponderà a queste benedette
domande? – il sorriso negli occhi stemperava la durezza delle parole. La ragazza
iniziava a vedere un gentiluomo sotto la divisa.
- D’accordo
ispettore. Che vuole sapere. Chieda su e sia diretto io prometto che sarò
sincera. Infatti l’avviso che sto per crollare e se mi vuole lucida deve
approfittarne subito!
- Bene
assodato che eravate legati sentimentalmente e che lavoravate nello stesso
studio legale, potrebbe dirmi se avevate nemici o se vi stavate occupando di
qualche cliente poco raccomandabile, o comunque qualche caso
pericoloso?
- Non
lavoravamo alle stesse cose. In realtà io sono troppo spericolata per Tom. Lui
preferisce occuparsi di divorzi e affidamenti di minori. Io invece metto naso in
ogni mistero o sopruso. Infatti ultimamente sto seguendo due donne: una per
motivi di mobbing e l’altra di molestie.
- Beh anche
un causa di separazione può nascondere insidie. Tutto dipende dalle persone
coinvolte. Però, vista la dinamica, a me interessa un nemico comune, per così
dire. Qualcuno che volesse far del male a entrambi.
- Non mi
viene in mente nulla. Nessun lavoro che ci avesse portato a collaborare o anche
a controbattere, non abbiamo mai avuto altri punti di contatto, lavorativi, che
gli uffici confinanti.
Il dialogo
la mise a suo agio. Tanto che poi, in auto, raccontò tutto all’ispettore. Tutta
la sua vita, o quasi. Oltre alle beghe lavorative degli ultimi tempi, lo mise al
corrente della profondità delle proprie insicurezze e di come queste ultime
avessero un’influenza nefasta sul rapporto con Tom. Gli espose tutto con
distacco calcolato. Sentiva il bisogno di sfogarsi in qualche modo e, non
potendo piangere, aprirsi e sviscerare tutto le sembrava un buon
palliativo.
Arrivati al
laboratorio, era nel mezzo della tragicomica litigata, a causa della sua gelosia
esagerata, quando Teo la bloccò.
- Questo mi
sembra un punto interessante, me lo esponi meglio dopo – erano passati al tu
ormai. Ma erano anche alla meta – E poi dovrai comunque venire in caserma per
mettere nero su bianco.
- E quando
potrò piangere?
- A pranzo.
Così potrai farlo sulla mia spalla.
Dopo il
pranzo, seguì una cena e poi una notte. Lisa spostò le sue cose dall’agriturismo
all’appartamento di Teo. Non fecero nessun balletto tra le lenzuola, la sua
afflizione era troppo profonda per lasciarsi andare a un chiodo scaccia chiodo.
Però la tenerezza dell’uomo le penetrò sotto la dura scorza della sofferenza e
germogliò.
Si fidava di
lui. Anche se lo conosceva da poche ore, sentiva che aveva ragione. Non era
stato un caso che quella ragazza, Elena Zardi, avesse cercato di sedurre Tom, il
giorno stesso in cui era stata assunta. Aveva anche spiato tra i suoi file
personali. Infatti era convinta che quella notte al castello fosse un tentativo
di riconciliazione. Non aveva idea che avessero fatto pace. E quello era stato
il suo primo errore. Infatti, sperando in una scenata, aveva supposto che Lisa
sarebbe stata l’unica sospettata e il delitto archiviato come un raptus
passionale.
Ma
soprattutto avevano sbagliato coloro che l’avevano ingaggiata. Prima non
affidandosi a una professionista e poi creando un legame, dove non sembravano
esserci.
Una delle
clienti di Lisa era stata molestata dall’ex-marito di una delle clienti di Tom.
Ma nessuno aveva fatto caso al legame, finché Teo non aveva scoperto che la
Zardi era l’amante del suddetto. Proprio l’ex-moglie aveva allora risolto il
mistero, svelando di aver scoperto della denuncia e averne parlato al fedifrago
in un accesso di rabbia. L’uomo aveva sospettato che essendo fidanzati i due
avvocati avessero condiviso le informazioni e colto la possibilità di
inchiodarlo, entrambi.
Scoprire poi
che l’aperitivo di benvenuto all’agriturismo, per Lisa, era stato alterato e che
il barista era Nicola Zardi, fratello di Elena, aveva spiegato al poliziotto la
dinamica dei fatti e anche fornito le prove necessarie.
Ora, non
restava che fermarli tutti. Ma l’avrebbero fatto i collaboratori dell’ispettore
Argenzi. Senza il capo. Lisa si stava godendo troppo
il suo caldo abbraccio per poterlo lasciare libero. Anche solo per
lavoro.
QUASI
UN DELITTO
di
CRISTINA CONTILLI
Parigi,
14 febbraio 1821, residenza parigina del principe torinese Emanuele Dal Pozzo
Della Cisterna
“Le
tragedie io desidero recitarle soltanto a teatro, non nella mia vita privata e
morire il giorno di S. Valentino sarebbe una fine troppo letteraria per essere
vera. E poi Ludovico voleva una morte eroica, in carcere o sulla barricate, non
voleva certo morire nel proprio letto, nella casa parigina di suo cugino! Senza
contare che io non potrei mai perdonarmi per essere stata responsabile della sua
morte.”
“Il
cuore del marchese Di Breme ancora batte, anche se in modo piuttosto lieve,
perciò non avete nulla da temere.”
“Ma
sono più di dieci ore che sta dormendo, voi siete certo che si sveglierà presto
e che la dose di oppio che ha preso non gli farà male? Io volevo soltanto
ritardare la sua partenza per Torino, non volevo certo
ucciderlo!”
“Ve
l’ho detto, signorina Marchionni, che non avete nulla da temere, ma vedo che voi
avete scarsa fiducia nella mia preparazione medica.”
“Non
vi offendete, sir Morgan, ma io ho più fiducia in voi come scrittore che come
medico.”
“E
vi sbagliate, perciò, ora io torno al mio studio e ai mie pazienti, voi restate
pure qui accanto al marchese così lo potrete rassicurare quando si sveglierà e
soprattutto calmarlo quando perderà la pazienza scoprendo che suo cugino è
partito da solo per Torino.”
Due
giorni prima
“Ludovico
è deciso a tornare a Torino assieme a voi e non vuole ascoltare purtroppo né i
vostri ragionamenti né le mie suppliche.”
“Lo
so, ma a Torino in molti credono che Ludovico sia morto e, se tornasse adesso,
portandosi dietro le copie del suo scritto sulla chiusura del Conciliatore, io
credo che lo arresterebbero subito.”
“Gliel’ho
spiegato anche io, ma Ludovico sostiene che gli resta ormai poco da vivere e che
questo poco lo vuole spendere lottando per la nostra
libertà.”
“Certo,
ma possibile che neppure una donna graziosa e innamorata come voi lo possa
convincere a restare qui a Parigi?”
“Sapete
bene che ho provato in tutti i modi a convincerlo…” Dopo aver pronunciato quelle
parole Carlotta si era ricordata che prima aveva cercato di far comprendere a
Ludovico come potesse fare la stessa fine del suo amico Silvio Pellico arrestato
nell’ottobre dell’anno precedente dalla polizia austriaca, poi, vedendo che
neppure il timore del carcere funzionava, Carlotta (o meglio Carlottina come la
chiamava Ludovico perché aveva quindici anni meno di lui) gli aveva infilato le
mani sotto la camicia e aveva cercato di persuaderlo con i gesti più che con le
parole.
Neppure
le sue carezze, però, avevano funzionato e così, alla fine, con la complicità di
sir Charles Morgan, medico e scrittore, lei ed Emanuele avevano concordato un
piano alternativo: somministrare a Ludovico una dose di oppio non pericolosa, ma
abbastanza forte da farlo dormire il tempo necessario a far partire suo cugino
per Torino.
Al
risveglio Ludovico avrebbe impiegato qualche ora a riprendersi dal senso di
stordimento e, una volta divenuto consapevole della situazione, Emanuele sarebbe
già stato in viaggio con un anticipo sul cugino di almeno una quindicina di
ore.
La
sera prima
“Ludovico
non credi che a quest’ora dovresti prendere le tue medicine e poi andare a
riposare?”
“Apprezzo,
Carlotta, che tu sia un’infermiera tanto premurosa, ma, non devi stare sempre in
pensiero per me, io, da quando sono giunto a Parigi, mi sento meglio. Io l’ho
sempre pensato che è l’aria di una città chiusa e provinciale come Torino a far
male ai miei polmoni! Non sarò mai grato abbastanza a mio cugino per avermi
convinto a partire, anche se mi dispiace di essere venuto meno alla promessa che
avevo fatto ai miei nipoti, di occuparmi di loro dopo la morte del
padre.”
“Hai
dovuto fare una scelta, Ludovico, e io penso che i tuoi nipoti quando saranno
più grandi la capiranno.”
“Non
dovranno aspettare così tanto perché finalmente anche a Torino qualcosa si sta
muovendo e presto io li potrò riabbracciare.”
“Io
sarei prudente al tuo posto, a Torino in molti credono che tu sia morto oppure
che sia all’estero a curarti e gli austriaci sembra che per ora non abbiano
messo nessuna spia sulle tue tracce, vuoi dargli tu l’occasione per farlo?”
Mentre parlava Carlotta aveva pensato: “Nella vita reale sono proprio una
pessima attrice, se non sono neppure capace di dire una bugia a Ludovico per
convincerlo a prendere le sue medicine, le prende senza fiatare tutte le sere
più o meno verso quest’ora e proprio stasera deve mettersi a fare
conversazione!”
La
notte precedente
Alla
fine Carlotta, quando Ludovico era stato colto da una violenta crisi di tosse,
era riuscita a convincerlo che era proprio giunta l’ora di prendere le sue
medicine e infilarsi a letto.
Prima
di crollare definitivamente Ludovico aveva, però, afferrato una mano di Carlotta
e le aveva chiesto: “Ma cosa mi hai dato? Lo sai che mio padre non
riconoscerebbe mai la validità del nostro matrimonio? E poi io credevo che tu mi
amassi… perché mi hai tradito anche tu?”
“Io
ti amo, Ludovico, perdonami… domani ti spiegherò tutto… ora dormi e non avere
paura… vedrai che non ti accadrà nulla…”
Il
mattino del 14 febbraio
Carlotta
si era svegliata presto dopo una notte di sonni inquieti. Era sempre stata
convinta che l’oppio fosse una sostanza pericolosa e anche se sapeva di aver
agito in buona fede temeva lo stesso che il fisico di Ludovico, indebolito dalla
tisi, non fosse in grado di reggere la dose che lei gli aveva somministrato.
Effettivamente Ludovico dormiva ancora, ma il suo respiro era così lieve da
essere appena percettibile. Carlotta era rimasta ferma ad ascoltarlo per vedere
se era regolare o subiva delle interruzioni, poi gli aveva appoggiato una mano
sul petto e aveva sentito che il suo cuore batteva ancora.
Non
si era, però, tranquillizzata, perché sua sorella molti anni prima era morta di
mattina all’improvviso e lei non aveva potuto fare nulla per
aiutarla.
Alla
fine, si era alzata dal letto con circospezione, si era infilata una vestaglia e
aveva suonato il campanello. All’apparire di una domestica, aveva cercato di
mostrarsi tranquilla e si era limitata a dirle: “Vai a chiamare il dottor
Morgan.”
La chiusura del cerchio
di Laura
Ganci
Giacomo non aveva la ben che
minima idea di cosa avrebbe potuto regalare a Caterina per la festa degli
innamorati con quei pochi soldi che aveva nel portafogli, scrutava le vetrine
delle luminose gioiellerie del centro cercando di mascherare la faccia perplessa che invece il riflesso
dei vetri scintillanti, gli rimetteva ad ogni passo. Anche il più semplice
anellino lì costava una fortuna.
Una commessa ben vestita con una
minigonna blu scura, che rientrava dalla sua pausa pranzo, lo scrutò con aria
quasi spaventata, forse lo aveva scambiato per un ladro intento in una
perlustrazione preventiva di un futuro colpo. Senza neanche guardarlo in faccia
quindi, s’infilò di corsa all’interno, facendo cenni quasi disperati al titolare
di aprire alla svelta il portone blindato.
Giacomo la guardò con
sufficienza, ma chi si credeva di essere quella lì? Ragazzi però che gambe!
S’infilò i pugni in tasca e
continuò per la sua strada, abbassò gli occhi e notò le punte impolverate delle
modeste scarpe che calzava, pensò che avrebbe dovuto cambiarle uno di questi
giorni, erano rovinate e fuori moda. Un giorno avrebbe avuto i soldi per fare
quello che avrebbe voluto, pensò positivo, comprarsi quegli stivali di pelle che
aveva sempre desiderato e regalare a Caterina quel gioiello che avevano visto
insieme nella vetrina di ORO BLU, il più noto gioielliere della città: un anello
d’oro con un rubino incastonato al centro. Decise che quel giorno era arrivato,
era oggi, il giorno di San Valentino.
Giacomo percorse tutto il viale
alberato, non erano stati potati quell’anno, e gli alberi avevano l’aspetto
malato, forse anche a causa dello smog del centro. Un pensiero strano gli balenò
in testa, chissà se la prossima primavera sarebbero tornati belli e rigogliosi
quegli alberi! Pieni di foglie e fiorellini bianchi!
E chissà se anche la storia con
Caterina sarebbe riuscita a superare quella crisi. Caterina sembrava non amarlo più come una
volta, dopo essere stati insieme per quattro mesi, lei quando era con lui
appariva nervosa, distante, a volte scontrosa, gli rinfacciava spesso la sua
superficialità e la sua inattività, spesso lo trattava male, ma lui la amava, e
quell’anello sarebbe stato il suo riscatto nella vita. San Valentino era il
giorno perfetto per dimostrarle tutto: il suo amore e la sua
concretezza.
Meditò la rapina in una farmacia
per avere i soldi, ma si picchiò sulla testa per averlo solo pensato, non
sarebbe mai riuscito a minacciare una persona in modo convincente per fargli
sganciare il denaro, e poi con la sfortuna che si ritrovava addosso, ci sarebbe
stata la solita vecchietta impicciona che avrebbe azionato uno di quei gingilli
al collo per l’ auto - soccorso e la
polizia gli sarebbe stato subito addosso.
Un prestito da mamma non era
un’idea fattibile. Mamma era una baby pensionata della pubblica amministrazione,
mille euro per lei non sarebbero stati una somma difficile da reperire per darli
al suo secondogenito, ma in cambio di cosa?
Si disse però, promesse improponibili e un sermone del tipo “Caterina non
è la donna della tua vita” o “Caterina non è quella che fa per te” o “Mamma sa
chi ti farebbe felice” ecc. Valeva tutto questo l’amore di Caterina e il suo
gioiello? Forse sì, ammise Giacomo ma non se la sentì di provare, dopotutto gli
bruciava maledettamente chiedere aiuto a mamma, non lo aveva mai fatto, neanche
per riuscire a finire gli studi all’Università, perché avrebbe voluto farlo
adesso? Scartò definitivamente l’idea “MAMMA”.
Papà era ancora peggiore,
divorziato da mamma da un decennio, era un bighellone senza arte né parte,
viveva come un mantenuto con una donna dell’Est, forse russa o bielorussa, non
sapeva di preciso, proprio a due isolati da lì. Giacomo non l’aveva mai
conosciuta, era una donna d’affari, una di quelle manager dell’Est emergente,
capaci di conquistare il mondo, una donna decisa e risoluta, ferma negli affari
ma terribilmente instabile negli affetti. Sapeva, infatti, che era stata
lasciata da ben due mariti e che nella vita aveva conosciuto solo uomini che
l’avevano sfruttata per molti anni, papà non era di meno. Chiedere quindi un
prestito a papà sarebbe stato inutile, al massimo sarebbe stato capace di
sottrarre un gioiello a caso della russa per “regalarlo” al suo figliolo in
difficoltà amorose. Sapere poi che con Caterina non c’era più il feeling di una
volta, per papà sarebbe stato uno spasso enorme, infatti, lui come tanti altri
uomini non riuscivano a concepire nella sua mente, l’idea di sacrificarsi per
amore, se una donna non ti vuole, non perdere tempo era il suo motto, cercatene
un’altra magari brava a letto.
Scartò definitivamente l’idea del
prestito “famigliare”, Maurizio suo fratello maggiore, non era in grado di
procurargli una somma del genere, mille euro erano sicuramente troppi per un
uomo che viveva con il solo stipendio di ricercatore scientifico all’Università
di Pisa.
Come fare quindi?
Per procurarsi una somma del
genere non c’erano opportunità, avrebbe dovuto per forza delinquere, non ci si
procura denaro se non ci si sporca le mani, un lavoro solo occasionale pensò,
uno di quelli che puoi gestire quando vuoi e che ti permetta di guadagnare
rapidamente. Lo spaccio di stupefacenti pensò ad esempio, sarebbe stato
perfetto.
Conosceva un tizio che spacciava
su al nord, al quartiere che i cronisti avevano battezzato “La cittadella”, si
procurava pastiglie di anfetamine con impresso su, lo stemma del Gran Ducato, e
le rivendeva giù al quartiere “Marbella” dei figli di papà.
Giacomo sapeva, dove procurasi il numero di telefono del tizio, pensieri strani
gli barcamenavano nel cervello. Sul bus
urbano che aveva preso al volo senza biglietto, Giacomo si sedette in fondo, con
accanto ad un uomo di colore, sui cinquant’anni, vestito di marrone scuro, con
giaccone e cravatta, e con mano stretta tra le ginocchia una valigetta 24 ore,
lucidissima ed elegante. Giacomo non poté fare a meno di fissarla. Che cosa
poteva mai contenere quella valigetta?
“Vuoi sapere cosa c’è dentro
ragazzo vero”? Gli chiese all’improvviso l’uomo in un leggero accento
francese.
“No, no..” rispose Giacomo
turbato e confuso, per l’imbarazzo era un po’ arrossito sulle
guance
“ E invece vuoi sapere cosa c’è
dentro ..” insistette l’uomo di colore “ammettilo stai morendo dalla voglia di
guardarci dentro”
“No, le dico di no … non mi
permetterei mai …” adesso Giacomo fu preso da timore, forse quell’uomo era un
killer e dentro quella 24 ore trafugava la sua arma, brividi di freddo lo
percorsero sulla schiena, nonostante fuori ci fossero quasi 4 gradi sopra lo
zero, e sul bus non era acceso il
riscaldamento, iniziò a sudare.
L’uomo di colore quasi gli avesse
letto i pensieri esclamò con un risolino “credi che ci sia un’arma
dentro?”
La testa di Giacomo si mosse
senza il suo volere, annuì e disse sì.
“Non lo dirò a nessuno!"
farfugliò non scandendo bene le parole.
L’uomo scoppiò in una fragorosa
risata, due donne imbacuccate per il freddo si girarono in direzione degli
ultimi sedili ma vedendo un negro, scossero la testa con
indifferenza.
“Cosa pensi che sia? Una pistola
o un fucile?” chiese poi ritornando serio
“Non so, ” rispose stavolta
pronto Giacomo, quella risata gli aveva dato il tempo di riprendere fiato,
avvertì il suo cuore ritornare a battere, non era ancora morto.
“Forse una pistola, la valigetta
è piccola”.
“Sei un bravo ragazzo” continuò
l’uomo “ non sai nulla sulla malavita e sulle armi, non sai che un fucile XXXXX
ha le dimensioni di un libro ?" O di una scatola di cereali? “
Giacomo ripensò al suo proposito
di prima, lo spaccio di stupefacenti, forse l’uomo di colore aveva ragione non
sapeva nulla di quel mondo, Caterina avrebbe dovuto rassegnarsi, lui non avrebbe
mai avuto mille euro per quell’anello.
L’autobus si fermò, alcuni
passeggeri scesero, Giacomo pensò di fare altrettanto ma la paura lo aveva quasi
pietrificato, non fece in tempo, le porte automatiche si chiusero prima che poté
spostare il peso in avanti per alzarsi dal sedile. L’uomo di colore lo fissò
divertito.
Trascorsero vari minuti di
silenzio tra loro, nessuno forse sapeva di cosa parlare, ma Giacomo non riusciva
a staccare gli occhi dalla valigetta, e l’uomo lo sapeva.
La prossima fermata sarebbe stata
a meno di un chilometro, Giacomo decise di scendere, non riusciva più a
controllarsi, avrebbe fatto dieci, venti chilometri a piedi piuttosto di
trovarsi lì, ma quel chilometro era interminabile.
All’improvviso una frenata brusca
interruppe momentaneamente il flusso dei suoi pensieri, una voce di donna urlava
disperata “E’ morto!" E’ morto! L’ha messo sotto il bus! “
L’autista frastornato aprì la
porta automatica ma non riuscì a scendere, una donna e un uomo con il
passamontagna erano sbucati dal nulla e brandendo due pistole urlavano “Questa è
una rapina! "Questa è una rapina!”
Sull’autobus erano rimaste poche
persone, le due donne del sedile davanti a Giacomo, quattro uomini di quaranta
anni all’incirca e loro due, Giacomo e il misterioso uomo di
colore.
I due malviventi erano nervosi,
spingevano, brandivano con spavalderia le armi davanti agli atterriti passeggeri
che prontamente davano loro catenine d’oro, orologi o semplicemente contanti dai
loro portafogli, l’autista che era stato evidentemente ingannato cercò di
reagire ma l’uomo mascherato gli sferrò un pugno in pieno viso, la donna nel
frattempo arrivò minacciosa davanti a Giacomo e all’uomo di
colore.
“datemi tutto quello che avete,
altrimenti vi ammazzo” urlava la donna.
Giacomo cercò in tasca, prese il
portafogli e lo diete riluttante alla donna, che schifata lo buttò dietro ai
sedili, conteneva all’incirca venti euro.
“Tu negro! Dammi il
portafogli!”
L’uomo non reagì, avrebbe potuto
farlo, era molto alto e robusto e forse pesava il doppio della ladra, gli porse
l’orologio d’oro firmato sganciandolo dal polso con flemma, la donna
s’innervosì, forse era sotto l’effetto di droghe.
“ e muoviti negro dei miei
stivali! “ lo ingiuriò
L’uomo le porse anche un anello e
del contante, la donna divenne eccitata all’idea di quell’insolito bottino, non
vide la valigetta nascosta tra i sedili.
“Guarda !” urlò al complice “Con
questo ci facciamo i soldi!" “ gli disse mostrando l’orologio
L’uomo la guardò compiaciuto poi,
la esortò a scendere di corsa erano rimasti molto tempo su quell’autobus, lei
gli annuì e gli disse “sì, ti raggiungo, devo fare però prima una cosa …”.
Lui le rispose “Sì, ma muoviti
fallo alla svelta”.
La donna si avvicinò nuovamente a
Giacomo e all’uomo di colore e con precisione puntò l’arma contro i
due.
“Cosa fai?”le urlò Giacomo “Vuoi ammazzarci? Hai avuto quello che
volevi no? “
La donna non rispose ma premette
il grilletto, un colpo solo, solo uno.
Giacomo credete di invecchiare di
dieci anni, era stato solo un colpo di scena della donna, non aveva ucciso
nessuno, si sbagliava, si volse a guardare l’uomo di colore e si accorse che era
ferito, il proiettile lo aveva raggiunto alla gola.
“Perché?” gli gridò
Giacomo
“Sono razzista” gli rispose la donna e come era
arrivata, sparì
L’uomo di colore perdeva molto
sangue, Giacomo che nonostante tutto aveva anche studiato medicina, chiamò con
il cellulare di un passante l’autoambulanza, riuscì a farlo sdraiare, ma la
ferita era molto seria, la fasciò alle belle è meglio, l’uomo di colore lo
afferrò per la giacca, non riusciva a parlare ma voleva farlo lo
stesso.
“Mi chiamo David Nicol … sono
francese … ti prego dammi un foglio e una penna”.
“Vuoi scrivere?” gli chiese
Giacomo ma era una domanda inutile, David non poteva rispondergli. Giacomo corse
al posto di guida dell’autobus e strappò da un blocco in cui l’autista aveva
segnato degli orari, una pagina bianca e come penna usò una matita per gli occhi
che una delle signore sedute davanti a lui, gli porse avendo sentito
tutto.
David Nicol iniziò a scrivere,
era molto debole, ma la sua grande mano nera aveva ancora la forza di
farlo.
Scrisse alcune frasi con grafia
traballante, chiese a Giacomo come si chiamasse, lui gli rispose, ma non
riusciva a imprecare del ritardo dei medici.
“Basta David!” gli urlò Giacomo,
“Stai fermo, la ferita non è grave ti salverai, non muoverti”.
David Nicol lo afferrò dal
giubbotto, con una voce flebile flebile e un sorriso
gli mormorò “Non sei bravo a mentire” e reclinando il capo spirò.
I paramedici e il medico del 118
appena arrivati si limitarono a certificarne il decesso, non potevano fare
altrimenti, la ferita era troppa profonda, anzi tutti e tre i sanitari si
meravigliarono di come avesse potuto scrivere in un quadro fisiologico così
grave.
A Giacomo scesero due lacrime che
pulì con la manica del giubbotto intriso di sangue di David, anche se era un
killer gli era simpatico quell’uomo!
Giacomo aprì il foglio e lesse le righe che
David gli aveva lasciato:
Mi
chiamo David Nicol
Sono
francese e lavoro per la RICH & FISCHS, sono un rappresentante di preziosi,
nella valigetta che ho nascosto tra i sedili del bus, ci sono 2 milioni di euro
in gioielli e oro di mia proprietà, desidero che GIACOMO MiNEGUZZI prenda un gioiello a sua scelta per mia
gratitudine.
Giacomo
… a mia moglie Beatrice che la amo e che la amerò sempre
Segue
data e firma DAVID NICOL
Giorno
degli innamorati.
Giacomo non riusciva a credere a
cosa leggeva, risalì sull’autobus vuoto e rovistò tra gli ultimi sedili, la
valigetta nera e lucida era ancora lì, nessuno si era accorto di quella
anomalia, si sedette e, appoggiata alle ginocchia fece scattare lentamente,
quasi che i suoi movimenti potessero far scattare un detonatore, la combinazione
della chiusura.
Dentro, tra rotoli di stoffa di
velluto rossa, c’erano collane, orecchini e anelli, più tre piccoli lingotti di
oro purissimo.
Giacomo si mise le mani tra i
capelli cosa doveva fare adesso? Prendere un gioiello come gli aveva scritto
David? O prenderli tutti incolpando della loro scomparsa ai due
rapinatori?
La ragione gli diceva che con
quei gioielli avrebbe rivoluzionato la sua vita, ma il cuore e la coscienza però
non sarebbero mai stati a posto per il resto dei suoi giorni, cosa fare quindi?
Rotolò la stoffa con gli anelli e ne scelse uno, con un grande rubino sangue di
piccione dal taglio ottagonale, richiuse gli altri e si avviò verso la caserma
dei carabinieri.
David Nicol aveva ragione non
sarebbe stato mai un vero criminale, non ne aveva la stoffa e neanche la
testa.
Baciò l’anello e se lo mise in
tasca, si avviò a piedi sul ponte ormai si era fatta sera, il sole stava
tramontando, l’aria era gelida quasi che il cielo avesse in serbo per la nottata
di nevicare.
Giunse sotto le finestre di
Caterina, erano tutte e due illuminate, non suonò subito, si osservò i vestiti
sporchi non aveva avuto il tempo di cambiarsi
d’abito la sua casa era troppo lontana a piedi dalla caserma dei
carabinieri e le procedure della denuncia erano andate per le
lunghe.
Caterina rideva, una risata piena
e travolgente, Giacomo la sentiva anche da fuori, sorrise anche lui, era stata
una giornata pesante, immaginò la sua felicità alla vista dell’anello e la sua
voce cristallina che gli sussurrava finalmente TI AMO, decise ancora di
assaporare quell’attimo, Caterina rideva sempre, forse era al
telefono.
“Sto aspettando per cretino di
Giacomo, no ma figurati … si … avrà
comprato il solito pupazzetto di peluche o una tazza con dentro i cioccolatini
al liquore che io tra parentesi odio, li butto sempre quando me li porta, cosa
crede? Che li mangi? A mangiarli a quest’ora sarei una grassona! Certo carissima … ci sentiamo … è San
Valentino … certo che scopo stasera cosa credi? Nonostante tutto quel cretino a
letto ci sa fare … è l’unica qualità che ha … poi del resto se non ci fosse
Federico che ogni tanto mi copre le mie spesucce non
saprei come fare … su cara si fa tardi … devo ancora depilarmi le gambe … ciao
ti chiamo io domani e ti racconto …”
Giacomo restò come paralizzata
cosa aveva sentito? Caterina lo considerava un cretino! Stava con lui solo per
il sesso! Si vedeva con Federico il suo migliore amico!
Non riuscì a muoversi si sedette
sui tre gradini e si mise le mani tra i capelli
e poi nelle tasche del giubbotto, trovò l’anello e la ricevuta dei
carabinieri, la copia della denuncia e il numero di telefono della famiglia di
David Nicol che gli avevano dato.
Prese il telefono e digitò il
numero e una voce di donna disperata rispose con accento francese: allo
evidentemente l’avevano già avvertita.
“Signora Nicol mi chiamo Giacomo
sono stato con David fino all’ultimo … “ la donna non lo interruppe “volevo che
sapesse che David era un uomo meraviglioso e che l’ha amata sempre, fino
all’ultimo, che non si sarebbe mai separato da lei e che continuerà ad amarla
sempre anche dal cielo … “ disse tutto questo in un sol fiato.
“Grazie” mormorò la donna
“apprezzo quello che ha fatto per David lei è una persona gentile”
“ Signora …”
“Oui …
“
“David voleva anche dirle buon
San Valentino”.
“ Grazie ancora” sussurrò la
donna dominando le lacrime “buon San Valentino anche a lei”.
Giacomo chiuse la comunicazione,
rimase seduto sui gradini e preso tra le mani l’anello con il rubino, lo girò
tra le mani gelate. Chiuse gli occhi e appoggiò il mento nell’incavo del
collo.
La neve stava già
scendendo.
Ho letto i vari racconti...e devo dire che non comprendo in alcuni casi la loro esclusione dalla finale!! Magari alcuni dovrebbero essere rieditati (il mio anche)...ma in linea di massima tutti meritavano un'occasione!
RispondiEliminaI miei preferiti: La Chiusura del Cerchio di Laura Ganci e Una Notte Mozzafiato di Joy Trent! Complimenti alle autrici...storie che mi hanno fatto leggere sino all'ultima riga! ;)