Assassinio a S,Valentino


Dark Valentine
Di Alexandra Master

Mi stringo ancora di più il cappotto al petto, tengo fermo il collo e mi rannicchio quasi su me stesso mentre un’altra folata gelida mi scuote, mi sposta, mi fa rabbrividire fino nelle ossa. Lei mi aspetta a casa, una casa calda ed accogliente, la nostra casa.
Fuori dalla porta, uno zerbino verde dice a tutti che sono i benvenuti, già, tutti. Anche il suo amante.
Come lo so? Beh, non sono stupido. Il letto sfatto a metà pomeriggio, lei in vestaglia e l’aria allarmata, le telefonate a casa che si interrompono sempre se rispondo io. E quell’anello all’anulare destro.
“Ho fatto una piccola follia, ma mi piaceva tanto!!” Questa la sua risposta quando le ho chiesto dove lo avesse preso. Un sorriso innocente sul viso ma gli occhi sfuggenti e poi le labbra, morse lievemente dagli incisivi mentre, chiaro come il sole, nella sua testa scorreva un pensiero. Avete presente gli striscioni che seguono gli aerei? Quelli sui quali, a volte, dei fidanzati innamorati chiedono alla loro amata di sposarlo? Ecco, sulla sua fronte ne scorreva uno uguale, ma la scritta non era “Vuoi diventare mia moglie?”, era piuttosto : “Fai che se la beva, fai che se la beva!” ingenua. Ed io da bravo compagno ho finto di crederle, dandole un lieve bacio sulle labbra.
Allora è nata l’idea, il germe si è insinuato nella mia testa nel momento stesso in cui le mie labbra si sono posate sulle sue.
Solo due isolati e gliela farò pagare. Mi sento come Rodion di “Delitto e castigo”, nascondo sotto l’impermeabile l’oggetto che segnerà la fine di ogni sofferenza, di ogni inganno, di ogni bugia.
Oggi è il dodici febbraio, il giorno del nostro anniversario, ma noi, romantici come siamo sempre stati, abbiamo deciso di festeggiare questa ricorrenza tra due giorni. San Valentino ed il nostro decimo anniversario.
Dieci lunghi anni buttati così, come se nulla fosse, come se il nostro amore non contasse nulla. Ma sarò io a mettere la parola fine, non loro. Sarò io l’uomo, il coraggioso, l’unico capace di essere onesto e di fare ciò che è giusto.
Ricordo ancora la prima volta che ci siamo visti, era estate quando ci conoscemmo, una calda ed appiccicosa estate di Saint Louis, una di quelle che ti lasciano addosso le camicie e che ti incollano i capelli al viso. Quella sera il mio riparo era un bar con l’aria condizionata, un posto carino con delle ragazze che ballano e servono ai tavoli. Non era una bettola né un bordello, ma di certo non un locale extra lusso.
Appena entrato l’ho subito notata, bella, alta e formosa, i lunghi ricci ramati tenuti su da una molletta troppo piccola, tanto che alcune ciocche le scappavano dall’improvvisata acconciatura appiccicandosi sul collo umido.
Ricordo di aver sentito immediata eccitazione e caldo quasi quanto in strada, nonostante l’aria condizionata mitigasse l’afa estiva.
Le avevo fatto gli occhi dolci tutta la sera ed era stata l’unica a servirmi. La salutai lasciandole il mio numero su un tovagliolo. Banale ma spesso efficace. Volevo farmela e non mi sarei spaventato se avesse chiesto qualcosa di più.
Uscendo dal locale avevo sentito strane voci provenire dal retro e così, incuriosito, mi sono avvicinato a controllare. Stava litigando con un uomo che la rimproverava per averci provato con me, lei prima cercava di fare la gatta accarezzandolo per calmarlo. Fin lì ero rimasto a guardare, quasi intontito dalla sua bellezza, eccitato dalle movenze sexy di quei fianchi morbidi, poi lui le aveva tirato un manrovescio che l’aveva fatta volare lontano. In quel momento, vedendola lì col viso insanguinato ho capito che era mia, che dovevo proteggerla. Non sono pazzo, non sono un maniaco, mi sono solo innamorato.
Affrontai l’uomo con coraggio, lo misi in fuga con un paio di minacce e mi occupai di lei.
“Come ti chiami?” le chiesi.
“Ester”, rispose lei tremando. Aveva freddo nonostante la cappa umida, i capezzoli svettavano attraverso il tessuto leggero della camicia mostrando che non indossava intimo. Avrei dovuto capirlo allora che razza di donna era, ma ero accecato dal sangue che fluiva all’inguine e dalla sua bellezza.
“Un nome biblico. Molto bello. Io sono Samuel. Vieni, Ester, ti porto alla tua auto. Hai finito per stasera, no?”
Lei annuì, poi si fermò di scatto. “Sam?” mi chiamò. “Non ho l’auto.” Si strinse le braccia al petto e non potei fare a meno di pensare a quanto fosse bella e fragile.
“Ti accompagno io; e stai tranquilla, sono un vigile del fuoco, non ti farò del male.”
La portai a casa e finimmo a letto quella sera stessa. Dopo averle messo del ghiaccio sul labbro gonfio e dei punti finti a tener chiuso lo zigomo, lei si sdebitò con un Martini ed un bacio. Presto però finimmo sul divano nudi ed incollati. Volevo assaggiarla, sentire il suo sapore, leccare ogni sua piega e sentirla gemere appagata. Mi staccai dalla sua bocca per baciarle il seno, la pancia, scesi fino ad inginocchiarmi, lei sul divano nuda a gambe aperte era una visione celestiale. Calda e fremente mi disse che voleva assaggiarmi anche lei. Fu così che finimmo sulla moquette a sentire il nostro sapore.
Non ci fu altro quella sera e per molte altre sere. Non andai più al bar e non la vidi più. Fino al dodici febbraio di dieci anni fa. Ero andato a trovare un amico alla stazione di polizia, quando vidi una figura familiare attraversare confusa l’atrio.
“Ester!” la chiamai quasi ipnotizzato, il cuore che galoppava assieme all’inguine.
Si era voltata e mi aveva sorriso. Era lì per denunciare il furto della sua auto, la accompagnai e poi andammo a cena fuori.
“Ti penso spesso, sai? Non ti ho mai dimenticato.” Aveva detto ad un certo punto della serata.
“Nemmeno io ti ho mai dimenticata.” Era stata la mia risposta, una storia banale forse, ma che andava benissimo fino a sei mesi fa. Fino a che lei non aveva tradito la promessa fatta quella sera a casa mia: per sempre.
Quando apro la porta di casa, non c’è nessuna luce ad accogliermi, nessun camino acceso e nessun profumo di cena. Un biglietto laconico sul tavolo della cucina assieme ad i resti delle lasagne preparate a pranzo.
Addio.
Cosa?? Che sia dannata! Salgo in camera da letto a passi rapidi, accendo il pc per attivare i gps sul suo cellulare, me lo aveva chiesto lei di metterlo in modo da essere sempre raggiungibile in caso di necessità. La finestrella della posta si apre di colpo mentre digito frenetico i dati sulla tastiera.
Apro la posta mentre aspetto che vengano assorbiti dal sistema. È del lavoro, è arrivato lo stipendio, sai che me ne frega… un momento… la mail è di due giorni fa, letta e contrassegnata. Io non ho aperto la posta… ma allora! È stata lei!
Apro il conto on-line e lo trovo prosciugato, l’ultimo movimento risale a due ore fa, ha ritirato tutto quella puttana.
Nel frattempo un bip mi avverte che la localizzazione è avvenuta con successo. Si è spostata verso Nord. La spia verde segna un piccolo motel a più di dieci miglia da qui. Devo pianificare bene la strada da percorrere. Mi butto sul letto ancora vestito, ho solo l’accortezza di riporre l’orologio nel porta gioie sul comodino. Lo lascio cadere ad occhi socchiusi nella scatola fasciata di velluto ma non sento il solito tintinnio metallico, la scatola è assolutamente vuota. Ha portato via anche i gioielli.
La disperazione mi assale, calde lacrime scendono dal viso fino a bagnare la camicia blu che indosso, è umiliante.
Perché? Perché? Mi chiedo. Non le ho mai fatto mancare nulla, mai ho alzato un dito su di lei, mai l’ho sgridata ed ecco cosa succede ad amare troppo.
Sono passati due giorni dalla mia scoperta, è il quattordici febbraio, il giorno di San Valentino, il giorno del nostro anniversario, il nostro giorno. Sono fermo ai piedi del letto matrimoniale, le lenzuola rosse del loro sangue spiccano contro il bianco della stanza. I loro corpi pallidi ma non ancora freddi sono avvinti, anche nello stremo della morte sono rimasti insieme. Con le mani e la camicia imbrattate del loro amore varco la soglia dell’albergo sotto gli sguardi attoniti degli ospiti e dei due cadaveri sdraiati sul letto.


LA NOTTE DI SAN VALENTINO
di Osvalda Sala
Giovanna richiuse adagio la porta della biblioteca cercando di calmarsi. La pendola nel corridoio batté dieci colpi. Si sentiva le guance in fiamme, le labbra arse
Tra breve tutto sarebbe finito. D’improvviso non ebbe più paura.
Il pensiero di Elena le attraversò la mente. La sua dolce, timida, Elena!Che la zia prendeva gusto a tormentare con sadica cattiveria. E lei non reagiva! Limitandosi a piangere nel silenzio della sua camera
Anche per la sua sorellina minore, indifesa e schiavizzata da quella vecchia arrogante e dispotica, si era infine decisa al gran passo! E per i quattrini. La zia era ricca a palate, ma una vera strega. La loro vita era stata un inferno! Soprattutto per Elena. Che non aveva mai avuto e non aveva la forza di reagire.
Tutte le sere, la zia, voleva che Giovanna le facesse un po’ di lettura nella biblioteca dalle pareti di legno scuro, tetra e polverosa dove lei, assisa nella sua poltrona, imperava superba e tirannica.
La signora Ebe, la governante diceva che era il diavolo fatto persona.
Nessuno avrebbe pianto la sua morte. E lei ed Elena sarebbero state ricche e…libere!
Due gocce di veleno nella tisana che la zia beveva tutte le sere prima di coricarsi. Un veleno che poteva simulare un attacco cardiaco. La vecchia soffriva di cuore. Aveva già subito due infarti. Il medico non avrebbe alcun dubbio sulla causa del decesso
La sorella le giunse improvvisamente alle spalle. Giovanna la fissò con uno sguardo stranito. Quasi non la vedesse.
«Che hai Giovanna? Sembri stravolta» le chiese Elena ansiosamente «hai litigato di nuovo con lei?».
Le liti tra Giovanna e la zia la turbavano profondamente. La sorella maggiore non subiva in silenzio! Le teneva testa, urlava,sbatteva le porte.
Giovanna scosse il capo, rivolgendole con un sorriso stentato.
«No, ho mal di testa. Vado a fare due passi. Non disturbare la zia», le raccomandò, accennando con un gesto del mento alla porta chiusa della biblioteca «sta sonnecchiando» aggiunse ravviandosi nervosamente i capelli.
Si chiese se la vecchia stesse già bevendo la sua tisana. Non avrebbe notato nulla di strano. Il veleno era insapore. E inodore. E poi l’aveva zuccherata più del solito. Era golosa. L’avrebbe trangugiata con soddisfazione sino all’ultima goccia!
«Si, hai ragione Giovanna. E poi non voglio rischiare di…».
Strinse le labbra chinando il capo.
«Sempre Piero? »
«Già. Non fa che dirmi che è un buono a nulla, uno sfaticato.Come fosse tutta colpa sua se non riesce a trovare un lavoro! Mi ha proibito di vederlo. E proprio oggi! La sera di San Valentino!Avevamo pensato ad una pizza e ad un cinema, e invece…».
«E tu infischiatene e vai a raggiungerlo! Sei maggiorenne! »
«Lo so ma…mi ha minacciata di mettermi sulla strada e…».
Giovanna le gettò uno sguardo torvo. Quel suo Piero era realmente un inetto ed Elena avrebbe avuto solo da guadagnare a perderlo! Ma quella sciocca era innamorata cotta e non vedeva a un palmo dal suo naso!
«Va bene, non crucciarti. Può darsi che le cose infine si sistemino»,la rassicurò. Come aveva sempre fatto sin da quando erano bambine. La sorella maggiore! Il suo angelo custode!
Elena le rispose con un sorrisino incerto che Giovanna giudicò un po’ ebete. La osservò salire lentamente lo scalone che portava ai piani superiori. Poi uscì.
La notte era umida, con una pioggerellina sottile e fastidiosa.
Si diresse verso l’insegna luminosa di un bar. Entrò nel locale. Luce e tepore la rinfrancarono, rilassandola. Gettò uno sguardo distratto ai pochi avventori. Una giovane coppia seduta ad un tavolino d’angolo parlava concitatamente. Giovanna ebbe l’impressione stessero litigando. Bel modo, si disse ironicamente, di trascorrere la serata della festa degli innamorati!
Distolse lo sguardo, appollaiandosi su un alto sgabello di fronte al bancone. L’orologio a muro segnava le ventidue e trenta. Automaticamente controllò il proprio, al polso. Tutto ormai doveva essersi concluso. Cercò di rilassarsi.
Ordinò un brandy. Sentiva di averne bisogno. E voleva far trascorrere ancora una mezz’oretta. Per maggior precauzione. Poi sarebbe rientrata. E avrebbe recitato la scena madre! L’aveva provata e riprovata dentro di sé, sino alla nausea. E ormai si sentiva in grado di rappresentarla come un’attrice consumata.
Le lancette dell’orologio sembravano bloccate. La coppia che discuteva se ne andò a braccetto. Dovevano aver fatta la pace Alla fine san Valentino aveva avuto la meglio sui loro temporanei dissapori.
La porta si chiuse dietro di loro in un tintinnio di cristalli. Per distrarre la mente dal suo pensiero fisso arzigogolò sui motivi del loro litigio. Che poi, alla fine, tra due innamorati, era sempre quello: la gelosia! Ma la gelosia era anche l’amore. Che è la forza che regge il mondo. E lei di amore…ma sarebbe stata ricca! Grazie a due piccole gocce di veleno.
Ordinò un altro brandy. Il barista la guardò con curiosità. Ma non se ne curò. Di che si impicciava? Se anche avesse voluto ubriacarsi, non lo riguardava! Il suo mestiere era quello di servire i clienti, Non di sindacare sulle loro intenzioni! Buttò giù il brandy d’un fiato.Ne chiese un terzo.
«Signora, non crede…»
«Si faccia gli affari suoi! » lo interruppe lei sgarbatamente, lo sguardo torvo.
L’uomo non replicò, ma le versò il liquore ambrato in un silenzio carico di muta riprovazione. Detestava gli ubriachi, Specialmente le donne. Tuttavia non aveva a che fare con una minorenne. Nessuno avrebbe potuto rimproverargli nulla. Si augurò comunque che quella scorbutica cliente non avesse anche la sbronza cattiva. Non voleva guai nel suo locale.
Questa volta Giovanna bevve lentamente. Centellinando ogni sorso. La testa cominciò a girarle. Non era abituata all’alcool! In casa non c’erano liquori. La zia li aborriva. Il marito era stato un alcolista ed era morto, a soli cinquant’anni, di cirrosi epatica. Lei lo ricordava appena. La zia le aveva prese con sé pochi mesi prima della sua morte. Dopo che i loro genitori si erano schiantati contro un camion, di ritorno da una festa. Una notte d’inverno, con una nebbia da tagliare col coltello che rendeva la visibilità pressoché inesistente. Una velocità assurda. Una stupida imprudenza. Che le aveva lasciate orfane in tenera età. In balia di quella megera!
Cercò di dominare la collera che sempre l’invadeva quando vi ripensava. Doveva mantenere il suo sangue freddo.Non lasciarsi fuorviare da altre emozioni.
Rientrò poco dopo le ventitré.
Tutte le luci della casa erano accese. Davanti all’ingresso principale, la macchina della polizia lampeggiava sinistramente.
«La signorina Giovanna Fabiani?» un agente, sbucato dal nulla dalle tenebre del giardino, le si avvicinò facendola sussultare. Perché la polizia?Cosa era accaduto?
La governante era rientrata prima del previsto? Elena aveva ignorato la sua raccomandazione di non disturbare la zia? Scoprendone il cadavere?! Facendosi prendere dal panico, come al suo solito? E così lei non aveva avuto il tempo di sostituire la tazza con il veleno! E interpretare la parte che aveva imparata a memoria,
«Si», rispose imponendosi la calma«cosa è successo? »
«Venga dentro. Il commissario le spiegherà».
Lo seguì in silenzio, il cuore in tumulto. Cosa era andato storto?
Un uomo di mezza età, con un impermeabile blu scuro, le si fece incontro.
«Commissario Martini» si presentò.
«Mi dispiace doverle comunicare che sua zia è morta. Assassinata».
La voce era grave, pacata. Il piglio severo..
« Oh, Dio! ». Giovanna si portò melodrammaticamente una mano al cuore. Ma non capiva. Come faceva quell’uomo ad asserire che si era trattato di un omicidio?! La tazza di tisana non poteva essere già stata esaminata! Forse un odore sospetto? Sbiancò ma resse la commedia.
«E’ orribile… Chi mai può aver fatto una cosa del genere?! »
Il commissario non le rispose. La prese per un braccio delicatamente, ma con decisione, pilotandola all’interno della villa.. Dove lei si lasciò condurre passivamente. Tremava, ma si sforzò di mantenere un atteggiamento controllato. Calma, si disse. Qualsiasi cosa potesse essere accaduta… doveva mantenere la calma! O si sarebbe perduta con le sue stesse mani. Cercò di rammentare ogni particolare.
La zia l’aveva congedata nel suo solito tono brusco, dicendole che, per quella sera, la lettura poteva bastare. Aveva allungata la mano verso la tazza ma poi l’aveva ritratta appoggiandosi alla spalliera e chiudendo gli occhi. Ma Giovanna sapeva che l’avrebbe bevuta. L’aiutava a dormire. Lei se ne era andata silenziosamente. Ed era uscita. Anche se non ne aveva alcuna voglia. Ma faceva parte del copione.
Al suo ritorno avrebbe fatto scomparire le tracce e dato l’allarme. La governante era fuori, in libera uscita e come al solito non sarebbe rientrata che dopo la mezzanotte. In quanto ad Elena, la sapeva rintanata nella sua camera, a sfinirsi di lacrime sulla sua serata di festa, andata a vuoto. Cadendo poi in un sonno esausto e profondo.
La signora Ebe era rientrata prima del solito? Era stata lei a ritrovare il cadavere? E a dire al commissario che era Giovanna a servire, ogni sera, la tisana alla vecchia?! La sua mente lavorava febbrilmente. E dov’era Elena? Perché non era lì?! Possibile che non avesse udito tutto quel trambusto?!
Il commissario le sedette di fronte su una delle poltroncine rococò, fissandola pensoso. Sembrava stanco, quasi annoiato Ma lei non si lasciò ingannare. I suoi occhi la scrutavano intensamente mentre le poneva le domande di routine.
Cercò di controllare il tremito della voce nel rispondere.
«Abbiamo cenato tutte e tre insieme», incominciò soppesando le parole.
«Poi mi sono ritirata con la zia in biblioteca per farle un po’ di lettura, come ogni sera. Dice…diceva che la lettura le conciliava il sonno. Infatti verso le nove e mezza si è appisolata e allora l’ho lasciata. Ho deciso di uscire a fare quattro passi. Nell’ingresso ho incontrato mia sorella. Era un po’ giù per l’ennesima discussione con la zia a causa del suo fidanzato. La zia non lo poteva soffrire e aveva proibito ad Elena di continuare quella relazione. Abbiamo parlato un po’. Poi lei è salita in camera sua ed io me ne sono andata».
«Non è una bella sera per una passeggiata, non le pare?O l’attendeva il suo innamorato per festeggiare san Valentino?» le chiese in tono lievemente ironico.
L’ironia la smarrì, ma cercò di non confondersi. Un’incertezza, un tremito della voce…quel commissario non era un pivellino! Si sarebbe immediatamente insospettito.
«Avevo mal di testa. Ho pensato che un po’ d’aria mi facesse bene», rispose sostenendo a fatica il suo sguardo inquisitore. Ma non lo distolse. Poteva essere pericoloso.
« Ed è rientrata solo adesso? »
«Si» rispose decisa.
«Sua zia è rimasta sola in casa? »
«No, come le ho detto, c’era mia sorella. Si è ritirata nella sua stanza. Era giù di corda per la discussione di prima. Mi ha detto che avrebbe preso un tranquillante e si sarebbe coricata», mentì.
Elena non le aveva assolutamente manifestate le sue intenzioni. L’aveva solo vista salire al piano di sopra dove si trovavano le camere da letto, ma…poteva essere che invece avesse cambiato idea e voluto riprendere l’argomento con la zia. Scoprendone il corpo privo di vita. E aveva chiamato la polizia. Tuttavia le sembrava strano. Era una tal codarda! Non avrebbe mai avuto il coraggio di riaffrontarla! Non era come lei che invece…
« Sta mentendo.Sua sorella non era in casa. E’ uscita molto prima di lei! Per recarsi dal suo fidanzato. Lo ha testimoniato la governante».
«Impossibile! Era la sua serata libera! Se ne era andata verso le diciannove e trenta! Stavamo iniziando a cenare! Sta mentendo! Ed Elena è rimasta in casa, le ripeto. La zia non poteva rimanere sola!».
«Perché dovrebbe mentire? ».
«Non lo so. Ma le sto dicendo la verità, glielo giuro! ».
Intuì che il commissario non le credeva. Il suo sguardo sagace non l’abbandonava. Scosse il capo negativamente.
«La signora non si sentiva bene e non è uscita. Verso le dieci è scesa per recarsi in cucina a farsi una camomilla. Ha notato la porta della biblioteca socchiusa e la luce ancora accesa», riprese non tenendo in alcun conto le sue proteste. E lei non aveva nessuno che potesse confutare le affermazioni della governante! Smentirla!
Ma c’era un particolare che non quadrava. La signora Ebe aveva asserito di aver trovata la porta della biblioteca accostata, mentre lei era sicurissima di averla ben chiusa dopo aver lasciato la vecchia!
«La governante è entrata e ha trovato sua zia riversa sulla sedia a rotelle. Morta. E abbiamo ritrovato questo. In un cassetto della sua scrivania».
Le mostrò un taccuino dalla copertina scura.
« Lo riconosce? ».
No. Giovanna non l’aveva mai visto né ne aveva mai supposta l’esistenza.
« Il suo diario», la voce del commissario era glaciale.
Un diario?! Si sentì soffocare.
«Sua zia temeva di essere uccisa e proprio da lei signorina Giovanna»,
Non riusciva neppure più ad udire la voce del commissario. Fu il silenzio a farla ritornare in sé. Il commissario taceva. Come in attesa. I suoi occhi la scrutavano freddi, accusatori, implacabili. E Elena? Dov’era Elena?! Ma cosa importava ormai! La sua sorte era segnata…. Il diario! Il maledetto diario! Ignorava che la zia ne tenesse uno.
Il granello di sabbia in un ingranaggio perfetto!
«Basta! », gridò infine con una voce stridula, sconosciuta a lei stessa
«Se conosce già la verità perché continua a tormentarmi?! Va bene, l’ho uccisa io! La detestavo. Era perfida, odiosa! Ero stanca della sua tirannia, di dover mendicare il pane!Lei non sa cosa abbiamo dovuto sopportare, Elena ed io, in tutti questi anni!»
Il commissario ebbe un’espressione soddisfatta. Sembrava il gatto che avesse finalmente acchiappato il topo.
«Va bene. E adesso mi dica dove ha nascosto la rivoltella».
« La rivoltella?! ».
Giovanna lo fissò senza capire. Attonita.
«Su, adesso non si metta a fare la commedia! ».
«No, io…io non le ho sparato. Io…».
Giovanna ebbe un singulto.
«Io…le ho versato del veleno nella tisana che prendeva tutte le sere! ».
«Avvelenata?! Cosa si sta inventando adesso?! Sua zia è stata uccisa da un colpo di arma da fuoco! Una calibro ventidue per l’esattezza. E non c’era alcuna tazza con tisane di qualsiasi genere accanto a lei! ».
Giovanna vacillò. Una calibro ventidue? La sua rivoltella! Che un giorno aveva acquistato perché aveva sempre avuto il terrore dei ladri. La villa era isolata e loro erano donne sole! Chi…?
Solo Elena sapeva della sua esistenza! La sua pavida, tremebonda sorellina! Che l’amava, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per…
Elena doveva averla spiata, averla vista versare il veleno nella tisana. E aver comprese le sue intenzioni.
Allora era tornata in biblioteca. La zia probabilmente era ancora assopita. Aveva fatto scomparire la tazza che avrebbe potuto incriminare Giovanna. Elena! Il suo spaurito coniglietto! Che aveva cercato di simulare una rapina! Ma da sciocca qual’era non aveva pensato a mettere a soqquadro la stanza per rendere più verosimile la scena. In quanto alla signora Ebe…lei adorava Elena!
La verità le apparve all’improvviso nitida e sconvolgente. La governante aveva mentito per amor suo! Asserendo che Elena non si trovava in casa al momento del delitto. Per proteggerla da qualsiasi sospetto!
Elena, la sua cocca, che avrebbe continuato a difendere ad oltranza. Giurando il falso anche in tribunale, se fosse stato necessario. Come aveva fatto con il commissario. E non si sarebbe smentita.
Chiuse gli occhi rovesciando il capo all’indietro contro la spalliera imbottita della poltroncina rococò, con una risata da pazza che echeggiò stridula e sinistra nel silenzio del salotto. 

ROSE ROSSE, PERLE E CUORI INFRANTI
di Patrizia Ferrando
Gli assassini hanno spesso un loro stile particolare o una ferocia bruciante, talvolta si distinguono per una sorta di astuzia ipnotica, in qualche caso sfoggiano un macabro senso dell’umorismo, ma di rado posseggono il dono dell’opportunità. Ora- si chiede il Commissario Bassi- perché doveva saltar fuori un omicidio proprio sul finire dell’orario d’ufficio, il 14 febbraio, quando lui non ha comprato un regalino alla moglie? Approssimarsi alla scena del delitto, e notare, nell’ingresso della casa della vittima, un mazzo di rose rosse con un bigliettino apparentemente intonso, insieme alla rapida registrazione mentale del dato, segna un aumento della sua stizza. Certo da sempre che, per San Valentino, i fiorai aumentino il prezzo delle rose, l’anno scorso è stato tanto incauto da formulare questo pensiero ad alta voce, davanti alla moglie: è lei ha colto l’opportunità per rimproverarlo, suggerendogli ironica che, se le regalasse fiori almeno in un’altra occasione in dodici mesi, potrebbe avere conferma o smentita della sua teoria.
C’è un gran silenzio: nella palazzina ci sono in tutto quattro abitazioni, ma una è sfitta, mentre gli inquilini delle altre due sono al momento fuori casa.
L’appartamento della vittima, un assicuratore, celibe, in pensione, non è in disordine. Basta uno sguardo superficiale, però, per restare colpiti da diversi gioielli, alcuni forse di grande valore, sparsi sul tavolo della cucina; su un mobile vicino ci sono due bicchieri, su uno spicca una curvilinea traccia di rossetto. Quanto al defunto Arturo Nardelli, giace supino sulla soglia della camera da letto, con le gambe non lunghe a ingombrare il corridoio. A scoprire il cadavere, ancora caldo, è stata la sorella di Nardelli, poi colta da malore e accompagnata in ospedale; aveva aperto col suo mazzo di chiavi, non vi era alcun segno di effrazione. Poche pugnalate, e poco sangue. Il colpo letale sembra averlo colpito in modo repentino al cuore, ed esser stato seguito da tre incerte, confuse coltellate superficiali. L’arma del delitto è già stata recuperata: un pugnale dal manico lavorato, un oggetto alquanto kitsch, con ogni logica proveniente da un ripiano zeppo di souvenir, che il medico legale guarda con riprovazione, forse più per l’orribile gusto che per la valenza di portatore di morte. Bella donna, questa dottoressa, pensa ancora il commissario. Di sicuro deve avere qualche programma piacevole per la serata, vorrà sbrigarsi ad andarsene.
*
Era la Contessa di Castiglione, la dama che si ritirò dal mondo e velò gli specchi, per non mostrare, e non vedere lei stessa, l’inesorabile decadimento della sua celebrata beltà?
Jolanda se lo chiede con una punta di stizza, tentando di sistemarsi i riccioli in modo che non appaiano troppo radi. Non saprebbe dire se a renderla più nervosa sia l’incertezza della memoria, o il poco confortante riflesso del suo viso, nel tardo pomeriggio ancora invernale.
Il suo fascino non avrà varcato i confini e segnato la storia, ma è stata comunque ammirata, corteggiata, ha imparato fin da ragazzina come utilizzare una sana, rivendicata dose di civetteria. E anche se è sola in una casa che guarda sbiadire- o che la guarda mentre sbiadisce?-intende vestirsi per bene prima di cenare.
Ancora pochi anni fa, riusciva a sentirsi piena di charme, se non proprio seducente. Non ha abbandonato le scene rassicuranti dei “soliti giri”, pur avendo, sempre più spesso, l’amara sensazione che incontri e abitudini si disgreghino come tessuti consunti.
Ma la novità- così è stata definita da sua figlia- nella persona di Eva, che bussa lieve alla porta ogni mattina alle nove, prima di aprire con la sua copia delle chiavi, è piombata come inoppugnabile indizio che una soglia di non ritorno è stata raggiunta. Chissà se quella piccola oca dai capelli carota stasera cadrà tra le braccia di un donnaiolo in disarmo, fattosi forte di moine valentiniane.
Da una sussiegosa foto in bianco e nero- scattata in uno studio fotografico, non un’istantanea- ammicca la signorina Jolanda, ventenne curiosa del mondo, anche se imbrigliata in tante formalità. L’autonomia vera, determinazione, pensiero, azioni, l’ha scoperta molto tardi, come un piacere segreto e euforizzante; e adesso, la sente minacciata fin nelle inezie. Sembra chiedere all’altra Jolanda, invecchiata e nervosa, come mai si è trasformata in strega acida, e bolla impietosamente Eva, o al massimo la ignora.
La ragazza che mi aiuta: così Jolanda allude a Eva, parlando con le vicine, con la portinaia, o durante qualche telefonata alle amiche. Una badante è, a suo parere, riservata ad altri, e “donna di servizio” suona piuttosto antidemocratico e obsoleto.
“Vengo di Moldavia”, cinguetta Eva a qualcuno- una voce maschile!- che sul pianerottolo le domanda se è russa o rumena. Perché non si sbriga, perché non entra e chiude la porta? Jolanda si china in avanti, per sentire meglio, mentre ancora tenta di allacciarsi il fidato filo di perle: nemmeno l’udito è più impeccabile.
Un gesto brusco, e la collana si rompe, rovesciandosi in rivoli saltellanti sul pavimento. Una signora, certamente, non impreca; muove una mano a mezz’aria, si volta...e cade, scivolando su uno fra i suoi trent’anni di matrimonio. Nozze di perla, aveva sottolineato Armando, tanto tempo prima. Poi, però, era morto, e la moglie non può accusarlo, se la spalla le duole per il colpo.
In qualche modo, si appoggia alla poltrona, accorgendosi che, per rialzarsi, deve elaborare una strategia; non riesce semplicemente a tirarsi su, come avrebbe fatto una volta. Non urla, non chiama. Da quella scomoda posizione, intende come una nuova geografia si disegni nella stanza. Il comò è inespugnabile, il comodino traballante, il copriletto piuttosto insidioso, a causa della stoffa lucida e delle tante piegoline. Ecco, ora ha trovato il modo di raggiungere il cuscino di velluto, per sedersi. Tira il fiato; tra affanno e indolenzimento, guarda le sue preziose perle disperse per la stanza, e le paiono giorni che ha sprecato, aspettative deluse, entusiasmi irreparabilmente svaniti.
“Signora!!...che è successo?”. Eva, senza quasi aver oltrepassato la porta, è già inginocchiata sul pavimento, tenta di raccogliere tutto; tiene, per un attimo, ogni perla nel palmo della mano, quasi con stupore. Mormora parole liquide, rossa in volto. Jolanda, con poco fiato, l’apostrofa come lenta e distratta: è mai possibile impiegare tanto tempo per comprare un panetto di burro? Poi, rincara la dose: “Credevo di esser stata chiara. Non mi piace che tu dia confidenza a uomini estranei, e lo dico anche per il tuo bene. Non provare a negare, ho sentito”. Uno strano bagliore al di là delle tende di pizzo, però, rende conscia la padrona di casa di come le imposte siano rimaste aperte- altra mancanza di Eva!-tuttavia discuteranno in seguito di tali negligenze. La luce blu lampeggiante dimostra che qualcosa di grave deve essere accaduto, nel loro piccolo isolato di palazzine rosa antico.
*
“La vittima conosceva il suo assassino” non è certo un titolo originale in cronaca nera; non che lo sia “Delitto a San Valentino”, che per di più rimanda a situazioni passionali, tragedie d’amore e morte, al massimo reminescenze di gangster, non all’accoltellamento di un assicuratore grigio e solitario. E il direttore ci tiene ai titoli ad effetto, un giornale locale vive anche di questo. Così Giacomo, redattore sempre pieno di impegni con “amiche”, ma rigorosamente estraneo ai fidanzamenti, in una fredda e zuccherosa sera di febbraio, appesantita dal mal di testa e da un dj che alla radio si spendeva nella top 50 delle canzoni d’amore degli ultimi decenni, ha optato per “Non è stata una rapina. Pochi indizi e un mazzo di rose rosse”. Ora, nel mattino terso, è a caccia di approfondimenti, o, con un po’ di fortuna, della svolta verso la soluzione del caso. Queste cittadine di pianura, né grandi né piccole, non sono fatte per i delitti irrisolti: dapprima la gente si incuriosisce anche troppo, per poi iniziare ad allarmarsi, ad alimentare fantasie balorde, e un colpevole bisogna scovarlo. Il pugnalato Nardelli non offre grandi spunti narrativi: niente famiglia o relazioni, conoscenze superficiali, pare ereditate dal passato lavorativo, nessuna eccentricità o stravaganza su cui far leva, solo abitudini grigie e consigli che elargiva sul come adempiere a noiose pratiche burocratiche.
Tra i vialetti, davanti alla casa del delitto, sono parcheggiate tre auto della polizia, e si aggirano inquirenti e cronisti, ma ad attirare lo sguardo di Giacomo è una ragazza bionda, collo da cigno e spalle curve, stretta in un cappotto grigio e con le mani in tasca. Le si avvicina, e, con un sorriso di cui usa deliberatamente il fascino, le domanda se vive in quella zona. Lei scuote la testa: “No, qui vive una cara amica di mia nonna, siamo abbastanza preoccupati per lei, la consideriamo di famiglia…mi scusi”. La ragazza si allontana, comunque Giacomo non ha tempo di rammaricarsi, un trambusto richiama la sua attenzione. Domani il giornale titolerà a piena pagina “ Omicidio di San Valentino: s’indaga su una giovane moldava”.
*
“Non ci posso credere” “Non è possibile” “Chi poteva immaginarlo” “Pensare che te l’abbiamo portata in casa”. La figlia, il genero e le cognate di Jolanda ripetono ciclicamente le stesse frasi, con minime variazioni, mentre Jolanda e Alice, la nipote della sua amica più cara, tacciono, tenendosi per mano. L’anziana vorrebbe rimproverare se stessa, perché, ora che per Eva si prospetta addirittura un’accusa di omicidio, invece di pensare di averla sempre considerata inadeguata, se non sospetta, o sentirsi sconvolta per le ore trascorse con la presunta assassina, prova pietà: chissà in che guai si era messa quella ragazza, chissà se avrebbe avuto bisogno d’aiuto, di ascolto, comprensione, consigli.
La giovane, a sua volta, trova piuttosto inappropriato continuare a pensare agli occhi verdi di quel tipo, quello che forse pensava che non si vedesse a centinai di metri di distanza che era un giornalista, eppure sembrava simpatico.
Eva è stata vista uscire dal portone della villa quadrifamiliare dove risiedeva Nardelli ad un’ora compatibile con quella del delitto, proprio quando Jolanda le aveva chiesto di andare a comprare il burro; sul biglietto allegato al mazzo di rose stava scritto “Per Eva, tentatrice”. E, ancor peggio, nella tasca del giubbotto la ragazza nascondeva due bracciali di foggia antica, affini ai preziosi ritrovati sul luogo dell’assassinio. Eva ha negato, pianto, ma non nasconde di essere stata nell’appartamento di Arturo Nardelli.
C’è già chi mormora del sessantenne sedotto e turlupinato dalla biondina venuta dall’Est, e per molti è come se la condanna fosse ormai pronunciata.
*
Il piccolo chiosco di fiori emana già atmosfere primaverili. Sono arrivati i ranuncoli, tulipani dai colori teneri, roselline in tinte pastello. Alice ha fatto confezionare un piccolo bouquet, Jolanda vuole un omaggio grazioso per Eva, però con l’aria frizzante non si è sentita di uscire per ordinarlo di persona.
Giacomo non riesce a reprimere un sorriso, vedendo quella ragazza bionda, tanto diversa dal novero delle sue troppe amiche, avanzare verso di lui con le mani piene di fiori. “Se fossi un romantico” pensa “la paragonerei alla primavera” e qualcosa gli dice che invitarla a cena, e provare così a uscire da certi schemi sicuri e tristi, sia un’idea fortunata, come il venticello che sa di pollini nuovi e promesse.
Il commissario sorride, e per lui è raro. Pareva difficile credere a quella Eva, ma le sue impronte non erano sul coltello, e il DNA sul bicchiere macchiato di rossetto incompatibile col suo; la giovane moldava a trascorso giorni abbozzolata in un mutismo disperato, per poi esplodere in un profluvio di lacrime e spiegazioni. Nardelli era cadavere sul pavimento, quando lei era arrivata: da settimane la corteggiava in modo in parte allusivo, in parte grossolano, ma lei lo aveva conosciuto, su segnalazione di un’altra badante della zona, perché voleva mandare più denaro alla sua famiglia, e per ottenerlo non possedeva che i due antichi braccialetti. Con recenti risparmi, intendeva ricomprarli. Vedendo i gioielli sparsi sul tavolo, se li era ripresi, per poi fuggire.
L’inchiesta ha preso la strada dei negozi “compro oro” e del sottobosco di personaggi che vi gravitano intorno: ed è emerso uno pseudo socio di Nardelli, l’assassino. Impugnare quel coltello era stato il culmine di una lite, causata da una scoperta per lui intollerabile: Arturo donava parte dei gioielli comprati sottobanco a donne di cui sperava di ottenere i favori, in particolare intendeva regalare una collana di perle all’ultima fiamma.
Non è più San Valentino, e il Commissario Bassi va a comprare un mazzo di rose arancio, il colore prediletto da sua moglie.


Murder, San Valentino 1925
di QRISTAL1965
PROLOGO
Lysanne Adams scese dall'auto della polizia, davanti al distretto. Una folla di giornalisti la circondarono, prima che la polizia la scortasse all'interno.
- Oggi è il giorno di San Valentino... non è molto romantico uccidere il proprio marito, non crede?- le fece notare un giornalista con malcelata cattiveria.
- Se il giorno di San Valentino, un uomo sposato sta pensando alla sua amante e non vede l'ora di stare con lei, regala alla moglie una misera cena e un volgare bracciale per pulirsi la coscienza, e se questo marito si comporta così da sei anni, non vedo cosa ci sia di romantico in questo. Non mi lasciava libera ma non mi voleva più. E io volevo esser libera.- rispose prontamente. Delle giornaliste applaudirono. Da quel momento, le donne di Chicago si schierarono con Lysanne.
La polizia, dopo aver perquisito l'appartamento, il tenente Carrick aveva intuito che la donna era scappata. Aveva così mandato delle pattuglie alle stazioni sia dei treni che dei bus dove finalmente un agente l'aveva avvistata fra la gente. Il poliziotto aveva così avvertito gli altri poliziotti appostati nella stazione e l'avevano circondata. Lei non aveva opposto resistenza e i poliziotti si erano mostrati molto gentili con lei. Un poliziotto in borghese le letto i suoi diritti. Nella valigia le avevano trovato la pistola. Era inutile negare. Ma anche se doveva andare in prigione, si sentiva comunque libera. Aveva ucciso un gangster pericoloso, magari le avrebbero diminuito la pena pensò, cercando di farsi coraggio. Confessò il delitto, al tenente Carrick e al sergente Singer, entrambi rimasero colpiti dalla sua calma. Eppure non era una fredda assassina.
ANTEFATTO;
Mancavano due giorni a San Valentino, quando Lysanne Adams scoprì che suo marito la tradiva da alcuni mesi con una flap girl e ballerina del Carrabee, locale alla moda che apparteneva proprio a Fulmine Blue alias Martin Adams. Suo marito. Andava molto di moda affibbiare quegli appellativi. Fulmine, per la rapidità nel concludere gli affari e per il modo in cui eliminava i suoi avversari, ovvero con una scarica elettrica appena si sedevano su una poltrona molto invitante. Blue, per i suoi occhi blu incredibilmente belli ma anche molto glaciali.
Martin era molto temuto, lui e la sua banda 'gestivano' la zona est di Chicago. Ma gli affari del coniuge non le importavano, non le mancava nulla, solo un uomo. Il suo uomo.
Era l'ennesimo tradimento di suo marito, lui liquidava le sue scenate di gelosia dicendole che quelle, in fondo, erano solo avventure. Niente di serio. Che amava lei. Bugie. Se l'amava non l'avrebbe tradita. Le altre donne, le sue amiche le avevano detto che tutti gli uomini erano così. Ma lei non ne poteva più. Stava troppo male.
Lei gli aveva comprato, come regalo di San Valentino, un bellissimo orologio da taschino, e lui come la ripagava? Con un tradimento e un bracciale di diamanti per pulirsi la coscienza. Ne aveva abbastanza. Aveva provato a fuggire da lui, ma Martin l'aveva trascinata a casa e non l'aveva fatta uscire per una settimana.
Ne aveva abbastanza di quell'uomo egoista e prepotente.
Non lo amava più, non si fidava più di lui. Che tristezza non poter più festeggiare con lui quella romantica festa …
Quel pomeriggio, si recò al banco dei pegni, nella borsetta aveva un paio di preziosi orecchini sperava cosi di poter procurarsi una pistola in cambio dei gioielli. Non sapeva se era in grado di usarla, ma non aveva modo di provarla prima. Avrebbe sparato tutti i colpi, avrebbe ucciso quel verme senza cuore.
Quella sera, indossò un abito elegante e andò nel locale del marito. Tutti furono sorpresi di vederla.
Uno dei camerieri, corse nei camerini ad avvertire il padrone del locale, era certo di trovarlo con Shirley, la bellissima e spregiudicata flap girl.
Davanti alla porta c'era uno dei guardia spalla di Adams.
- devo avvertire il tuo boss-
- un momento, io l'avverto. E spero che sia cosa importante. Tu, invece, sparisci-
- c'è sua moglie qua.-
- molto importante. Bravo, ora svanisci e in fretta.-
Big Head Foster bussò alla porta del camerino. Shirley aprì. Indossava una vestaglia molto vaporosa e lasciava poco all'immaginazione.
- devo dire una cosa a Martin-
Fulimine Blue apparve alle spalle della donna.
- dimmi Big Head-
- tua moglie è qua-
Fulmine Blue Adams diede un pugno contro il muro quindi riprese il controllo.
- spero non le avrete detto che sono qua. Ditele che sono con Bad Horse Masters-
- va bene capo-
Shirley si avvicinò al suo amante.
- fra due giorni è San Valentino... ci sarai? Cosa mi regali?-
- potrò venire con te un po' più tardi, non posso lasciarla sola, capisci? Il regalo ti arriverà quella sera. Quando arriverò dovrai indossare solo quello. -
Lysanne fu liquidata con una fredda frase di circostanza.
- non c'è mi dispiace, è nel distretto sud della città... con Bad Horse Masters-
- come siete bravi a coprirlo- e, disgustata da quella complicità, tornò a casa.
Il giorno di San Valentino, quella sera, Martin stava parlando con il cameriere che aveva portato l'elegante cena, mentre Lysanne si stava vestendo, nell'allacciarsi la collana, vide dalla finestra della camera, delle auto arrivare nel garage di fronte a casa sua. Non era la polizia e il garage doveva esser chiuso da almeno due ore.
Aprì la finestra, e uscì sul balcone da cui si passava sulla scala antincendio. Scese rapidamente, togliendosi le scarpe. Vide così la scena. Due bande di gangster che si fronteggiavano, gli uomini di una banda tenevano le mani alzate. L'altra banda impugnava dei mitra.
Lysanne tornò rapidamente in camera. Prese la pistola e la mise nella tasca del vestito.
Uscì dalla camera e si avvicinò al marito. Lui le porse la scatola di velluto della gioielleria, dentro c'era il bracciale che lei aveva già visto.
- pensi di far tacere la tua coscienza in questo modo, Marty?-domandò, con tono di riprovazione.
Martin la guardò confuso, dov'era finita la sua dolce e ubbidiente Lysanne, la sortita al night club di due sere prima, lo avevano allarmato non poco.
- Lysanne... cosa stai dicendo? Oggi è San Valentino no? È la festa degli innamorati... e tu meriti questo mio dono... -
Lysanne si spostò verso la finestra e l'aprì. Lui non capiva quel suo movimento. Si sarebbe presa un malanno, con quell'abito da sera così leggero. Era metà febbraio e faceva molto freddo. Lei tornò a guardarlo e infilò una mano in tasca.
- hai un bel coraggio a dire che oggi è la festa degli innamorati, sai bene che io e te non lo siamo più e forse non lo siamo mai stati. Ogni anno per San Valentino, mi hai regalato gioielli, per toglierti il peso di dosso, il peso della colpa del tradimento. Ma stavolta sarà un San Valentino diverso. Molto diverso, inaspettato. Io potrò ancora festeggiarlo, tu no. Voglio esser libera e lo sarò ora. Da ora- Lysanne aveva parlato con estrema calma, per non tradire le sue emozioni, per soffocare l'ansia che comunque provava.
In strada stava avvenendo uno scontro a fuoco con due bande rivali. Nello stesso momento, Lysanne puntò la pistola addosso a Martin vedendolo spostarsi verso la finestra, incuriosito dagli spari. Ma lei, appena iniziò a sentire il rumore delle mitragliatrici più vicino alla loro palazzo, iniziò a far fuoco contro il marito che, distratto dagli spari in strada, era rimasto immobile. Fu colpito tre volte al cuore, due al ventre, e due alla testa. Lysanne non pensava di riuscire a essere tanto precisa, non pensava di avere una mano tanto ferma. Lo guardò, senza provare rimorso, ciò la sgomentò non poco, più del pensiero di finire arrestata per ciò che aveva fatto.
Nessuno aveva fatto caso ai suoi spari. Si erano avvertiti più chiaramente solo i colpi sparati con le mitragliatrici, per la polizia ci sarebbe stata solo la strage nel garage e lo scontro a fuoco in strada. Nascose la pistola fra due maglioncini, si cambiò di abito buttandoli in valigia e se ne andò da quell'appartamento per sempre, dopo aver preso la scatola della gioielleria con il bracciale di diamanti.
Ci volle molto tempo per trovare un taxi. La via era intasata dalla polizia e inoltre era la festa degli innamorati, e molte persone uscivano a cena. Lui, invece, cosa le aveva offerto quella sera? Una cena in casa loro, come se si vergognasse di portarla in un bel locale. No, lui voleva cenare, e con una scusa andarsene a metà serata, come aveva sempre fatto. Lasciandola sola la sera più romantica dell'anno.
Era l'ennesima mancanza di rispetto, ed era, purtroppo, la goccia che fa traboccare il vaso.
Riuscì finalmente ad arrivare alla stazione dei bus e prendere un biglietto per Los Angeles. Basta freddo. Basta gangster e malavita. Non scappava per non andare in prigione, ma per rifarsi una vita molto lontano da quella soffocante e fredda città.
Nel frattempo, a un paio di chilometri da casa Adams, Shirley attese a lungo, con indosso solo la pelliccia. Il suo amante però non arrivava. Le aveva promesso un San Valentino indimenticabile. Il regalo favoloso presagiva una serata di lusso sfrenato. ' be' sono solo sole le undici- pensò scrollando le spalle. La notte era ancora lunga. Attese ancora un po', sorseggiando piano dello champagne.
A mezzanotte iniziò a inquietarsi. Cosi Shirley si vestì, e andò ad informarsi da Big Head su come mai Martin non era ancora arrivato.
Nessuno l'aveva visto lì al Carrabee e l'autista non era stato richiamato da Adams. Big Head ebbe un brutto presentimento. Decise di andare a casa dell'uomo. Pensò che forse Lysanne Adams non l'aveva voluto lasciare andare il suo uomo, era la sera di San Valentino e lei non voleva restar sola. Era del tutto plausibile. Ma... Fulmine Blue riusciva sempre a divincolarsi dai doveri coniugali. Bussò alla porta dell'appartamento. Non rispose nessuno, né avvertiva dei rumori all'interno. Mentre stava per entrare nel portone, alcuni minuti prima aveva osservato la polizia delimitare la zona, cosi aveva saputo da un poliziotto della strage nel garage. Bene, una banda in meno a contendersi la città e gli affari. Ora il suo capo poteva prendersi anche il distretto sud. Ma non sapeva cosa stava per scoprire.
Sfondò la porta e rimase annichilito. Disteso a terra, nel centro della stanza, c'era il corpo senza vita di Fulmine Blue. Il viso e il torace erano coperti di sangue. Era stata lei, l'unica persona che il suo boss non temeva, l'aveva ucciso. Era stata la moglie.
Dovette avvisare la polizia del delitto. Mentre scendeva le scale, però, e lacrime gli riempirono gli occhi, la vista gli si annebbiò. Si sedette pesantemente sui gradini.
Con i suoi collaboratori, Fulmine Blue era sempre stato più di un amico, un fratello, comprensivo, sempre molto gentile e paziente. Certo, aveva il riprovevole vizio delle donne, ma era del tutto normale in un uomo avere delle avventure occasionali con molte donne.
Lysanne doveva essere più tollerante con il marito.
Si avvicinò all'ispettore Philip Stone, sua vecchia conoscenza. Gli raccontò cosa aveva scoperto e chi poteva esser l'assassino.
Finale
Sette anni dopo, Lysanne Milford, ex signora Adams, uscì di prigione per buona condotta e per aver collaborato con la polizia. La neve scendeva lentamente, i fiocchi erano grandi. Si fermò davanti a una vetrina, decorata con cuori rossi. Mancavano due giorni a San Valentino. Entrò nel negozio e acquistò un cuore e un po’ di cioccolatini. A casa l’attendeva Bartlett Simmons, direttore del carcere in cui era stata. Non era particolarmente bello come Martin Adams, ma era buono e comprensivo. Le stava ridando quella fiducia negli uomini, che il marito aveva ucciso dentro di lei anno dopo anno, e ogni 14 febbraio, a San Valentino.


Una notte mozzafiato.
Di Joy Trent
Era una notte buia e tempestosa. La pioggia batteva a ritmo sostenuto sugli infissi, con gocce grandi, miste a grandine. Il vento ululava a più non posso, rimestando persino le ceneri del camino, ormai spento.
Lisa tremava sotto le coperte, più per la paura che per il freddo. Lo stesso timore l’aveva inchiodata a letto, quando un fulmine e uno scroscio turbinante le avevano spento il camino e mostrato la stanza decadente, tetra e terrificante.
L’idea di sedurre Tom in quel vecchio castello, non era più romantica ed eccitante.
Appena arrivata lì, diverse ore prima, aveva pensato che l’agriturismo fosse proprio ciò che sognava. All’esterno aveva tutta l’aria diroccata di un vecchio maniero, persino le torri e le feritoie sembravano originali del primo medioevo. Era stata sicura della sua scelta, finché alcune osservazioni l’avevano portata al cinico pensiero che fosse tutto preparato per far colpo sui clienti: quando era entrata nella camera, la suite luna di miele nientemeno, aveva constatato che tutto era, per davvero e senza eufemismi, dell’età della pietra.
Aveva speso un botto e mezzo, per organizzare quel S Valentino fuori norma. Ora disperava persino che il suo amante riuscisse a trovare il posto.
«Speriamo soltanto che il suo contrattempo sia lavorativo.»
Il pensiero aveva appena preso forma nella sua mente, che lo scacciò. Non doveva ricadere nella solita trappola della gelosia. Tom era innamorato di lei e meritava fiducia.
Erano quasi le dieci e sembrava notte fonda. Non che in inverno il crepuscolo fosse tardivo, però iniziava davvero a temere di dover trascorrere la notte da sola. In quel luogo dimenticato da dei e uomini. Perfetto per un delitto.
Il solo pensiero fece aumentare il suo tremore.
Ormai quasi batteva i denti.
San Valentino horror, altro che “un sogno d’altri tempi”, come aveva scritto sul biglietto per il fidanzato.
Si doveva essere assopita. Non c’erano più rumori di tempesta, ma neppure traccia dell’uomo.
Guardò l’orologio da polso, non si fidava della vecchia pendola sul camino. Non batteva neppure le ore. Erano le 23.30. Era ancora il giorno degli innamorati e lei continuava a essere sola.
Aveva fame però. Non c’era più motivo di non cercare qualcosa da mettere sotto i denti. La cena romantica ormai era sfumata, almeno poteva zittire lo stomaco. In mezzo al trambusto di prima, non ci aveva fatto troppo caso, ma adesso sentiva di avere un drago annidato nella pancia.
Per non sembrare una poco di buono, decise di non scendere con la sola vestaglia a coprire il négligé, ma si vestì di tutto punto. Del resto non aveva portato capi comodi, solo l’elegante tailleur per far colpo sul gestore e avere quella suite.
Per le scale non avvertì alcun rumore, a parte il leggero scricchiolio prodotto dai suoi passi. Però era buio pesto. E non c’era neppure elettricità. Qualcuno di quei fulmini spaventosi doveva aver provocato danni. Si aiutò un po’ col cellulare, giusto per non sbattere in un pilastro, o un muro imprevisto. Stava pensando di approfittare dell’incursione in cucina, per chiedere anche una candela, quando inciampò. Rotolando dagli ultimi scalini, batté la testa e per pochi attimi si sentì confusa e spaesata.
C’era qualcosa di grosso,che ostacolava il passaggio a circa metà dell’ultima rampa, che lei però non aveva notato, dato che aveva sollevato la luce verso l’atrio ormai vicino. Era una forma trasversale. La fioca luce che aveva a disposizione le mostrava un essere umano, in diagonale sugli scalini, con la testa più in basso rispetto ai piedi e in una posa innaturale.
Stava cercando di capire se potesse essere il direttore che l’aveva accolta all’arrivo, o il cameriere che l’aveva accompagnata alla stanza, quando le luci si accesero, accecandola leggermente e una gran folla invase l’atrio.
- Luigi raduna tutto il personale, voglio sapere se ci sono testimoni.
Sentì una voce dura, scuoterla nel profondo. Dava ordini a qualcuno, che però al suo orecchio non avevano molto senso. Si riprese completamente dal lieve torpore. Tornò vigile e attenta a cogliere ogni minimo particolare. L’avvocato prese in lei il sopravvento e iniziò a esaminare con più attenzione il corpo. Era alto e robusto come aveva supposto e dal fisico aitante, adatto alle ipotesi fatte prima ma anche a qualcun altro… qualcuno che doveva arrivare lì da lei ore prima.
- Avvocato Anceri la dichiaro in arresto per l’omicidio di Tommaso Acuito.
Solo allora si rese pienamente conto di essere stesa sul corpo senza vita dell’amato. Non presentava ferite d’arma da fuoco o altro tipo, solo sulla scala c’erano tracce scure di liquido appiccicoso. Doveva essere sangue.
Il vero colpevole era il temporale, sicuramente, ma lei come avrebbe fatto a provarlo? Non aveva alibi né testimoni. E proprio qualche giorno prima avevano litigato furiosamente, per una stupida questione di gelosia. Era avvenuto allo studio, dato che erano colleghi, dove Tom aveva manifestato troppa simpatia per la nuova praticante. Ma avevano chiarito tutto, a casa da soli.
Tutte le testimonianze sarebbero state contro di lei. Inoltre nessuno sapeva di quella serata romantica.
Solo un miracolo avrebbe potuto salvarla.
Proprio quando stava per crollare, preda della sfiducia e della debolezza, il direttore dell’agriturismo fermò all’ispettore.
- Ispettore Argenzi, mi creda, la signorina non può essere colpevole. E’ stata tutto il tempo nella sua stanza e c’è una registrazione a comprovare la cosa.
- Luigi non c’è bisogno che mi dai del lei. Se quello che dici è vero, allora la soffiata che abbiamo avuto era una truffa. Deve essere stato il vero assassino. E adesso so anche chi è.
Dallo scambio di battute dedusse di avere ancora una speranza, anche abbastanza salda. E allora cominciò a intravedere le varie incongruenze di tutta la situazione. E il Perry Mason che era in lei prese la ribalta.
- Ispettore chi l’ha avvisata della presenza di un morto qui al “Castello dei fiori”? E come faceva a essere certo che io fossi l’avvocato Anceri?
- Come stavo anticipando al mio amico Luigi, il direttore Aldovici, ho una vaga idea di come sia stata orchestrata questa trappola e anche da chi. Prima di rivelarle i dettagli però avrei bisogno che rispondesse alle mie domande – l’ispettore Teodoro Argenzi aveva capito subito che tiretto era l’avvocato, ma sapeva anche che poteva crollare da un momento all’altro. Il dolore nei suoi occhi era chiarissimo, quindi meglio irritarla che compatirla.
La mente di Lisa si schiariva ogni momento di più. Decise di accantonare un attimo il dolore per la perdita del fidanzato e concentrarsi sull’aiuto che poteva fornire alla giustizia. Ci sarebbe stato tempo per disperarsi.
- Ispettore ha già predisposto per l’autopsia? Perché forse sarebbe il caso di fare un test tossicologico anche a me.
- Avvocato Anceri si calmi. Le indagini le seguo io e le assicuro che sarà facile arrestare i colpevoli. Ora però metta da parte il professionista del crimine e lasci rispondere la signorina Lisa. Tommaso Acuito era il suo fidanzato?
- Sì – la voce di Lisa era diventata di colpo flebile. Nel rimbrotto del poliziotto aveva letto quello del proprio cuore.
- Va bene, meglio agguerrita che lacrimosa. Se le prometto di accompagnarla al laboratorio per le analisi e di aggiornarla sulle indagini, risponderà a queste benedette domande? – il sorriso negli occhi stemperava la durezza delle parole. La ragazza iniziava a vedere un gentiluomo sotto la divisa.
- D’accordo ispettore. Che vuole sapere. Chieda su e sia diretto io prometto che sarò sincera. Infatti l’avviso che sto per crollare e se mi vuole lucida deve approfittarne subito!
- Bene assodato che eravate legati sentimentalmente e che lavoravate nello stesso studio legale, potrebbe dirmi se avevate nemici o se vi stavate occupando di qualche cliente poco raccomandabile, o comunque qualche caso pericoloso?
- Non lavoravamo alle stesse cose. In realtà io sono troppo spericolata per Tom. Lui preferisce occuparsi di divorzi e affidamenti di minori. Io invece metto naso in ogni mistero o sopruso. Infatti ultimamente sto seguendo due donne: una per motivi di mobbing e l’altra di molestie.
- Beh anche un causa di separazione può nascondere insidie. Tutto dipende dalle persone coinvolte. Però, vista la dinamica, a me interessa un nemico comune, per così dire. Qualcuno che volesse far del male a entrambi.
- Non mi viene in mente nulla. Nessun lavoro che ci avesse portato a collaborare o anche a controbattere, non abbiamo mai avuto altri punti di contatto, lavorativi, che gli uffici confinanti.
Il dialogo la mise a suo agio. Tanto che poi, in auto, raccontò tutto all’ispettore. Tutta la sua vita, o quasi. Oltre alle beghe lavorative degli ultimi tempi, lo mise al corrente della profondità delle proprie insicurezze e di come queste ultime avessero un’influenza nefasta sul rapporto con Tom. Gli espose tutto con distacco calcolato. Sentiva il bisogno di sfogarsi in qualche modo e, non potendo piangere, aprirsi e sviscerare tutto le sembrava un buon palliativo.
Arrivati al laboratorio, era nel mezzo della tragicomica litigata, a causa della sua gelosia esagerata, quando Teo la bloccò.
- Questo mi sembra un punto interessante, me lo esponi meglio dopo – erano passati al tu ormai. Ma erano anche alla meta – E poi dovrai comunque venire in caserma per mettere nero su bianco.
- E quando potrò piangere?
- A pranzo. Così potrai farlo sulla mia spalla.
Dopo il pranzo, seguì una cena e poi una notte. Lisa spostò le sue cose dall’agriturismo all’appartamento di Teo. Non fecero nessun balletto tra le lenzuola, la sua afflizione era troppo profonda per lasciarsi andare a un chiodo scaccia chiodo. Però la tenerezza dell’uomo le penetrò sotto la dura scorza della sofferenza e germogliò.
Si fidava di lui. Anche se lo conosceva da poche ore, sentiva che aveva ragione. Non era stato un caso che quella ragazza, Elena Zardi, avesse cercato di sedurre Tom, il giorno stesso in cui era stata assunta. Aveva anche spiato tra i suoi file personali. Infatti era convinta che quella notte al castello fosse un tentativo di riconciliazione. Non aveva idea che avessero fatto pace. E quello era stato il suo primo errore. Infatti, sperando in una scenata, aveva supposto che Lisa sarebbe stata l’unica sospettata e il delitto archiviato come un raptus passionale.
Ma soprattutto avevano sbagliato coloro che l’avevano ingaggiata. Prima non affidandosi a una professionista e poi creando un legame, dove non sembravano esserci.
Una delle clienti di Lisa era stata molestata dall’ex-marito di una delle clienti di Tom. Ma nessuno aveva fatto caso al legame, finché Teo non aveva scoperto che la Zardi era l’amante del suddetto. Proprio l’ex-moglie aveva allora risolto il mistero, svelando di aver scoperto della denuncia e averne parlato al fedifrago in un accesso di rabbia. L’uomo aveva sospettato che essendo fidanzati i due avvocati avessero condiviso le informazioni e colto la possibilità di inchiodarlo, entrambi.
Scoprire poi che l’aperitivo di benvenuto all’agriturismo, per Lisa, era stato alterato e che il barista era Nicola Zardi, fratello di Elena, aveva spiegato al poliziotto la dinamica dei fatti e anche fornito le prove necessarie.
Ora, non restava che fermarli tutti. Ma l’avrebbero fatto i collaboratori dell’ispettore Argenzi. Senza il capo. Lisa si stava godendo troppo il suo caldo abbraccio per poterlo lasciare libero. Anche solo per lavoro.


QUASI UN DELITTO
di CRISTINA CONTILLI
Parigi, 14 febbraio 1821, residenza parigina del principe torinese Emanuele Dal Pozzo Della Cisterna
“Le tragedie io desidero recitarle soltanto a teatro, non nella mia vita privata e morire il giorno di S. Valentino sarebbe una fine troppo letteraria per essere vera. E poi Ludovico voleva una morte eroica, in carcere o sulla barricate, non voleva certo morire nel proprio letto, nella casa parigina di suo cugino! Senza contare che io non potrei mai perdonarmi per essere stata responsabile della sua morte.”
“Il cuore del marchese Di Breme ancora batte, anche se in modo piuttosto lieve, perciò non avete nulla da temere.”
“Ma sono più di dieci ore che sta dormendo, voi siete certo che si sveglierà presto e che la dose di oppio che ha preso non gli farà male? Io volevo soltanto ritardare la sua partenza per Torino, non volevo certo ucciderlo!”
“Ve l’ho detto, signorina Marchionni, che non avete nulla da temere, ma vedo che voi avete scarsa fiducia nella mia preparazione medica.”
“Non vi offendete, sir Morgan, ma io ho più fiducia in voi come scrittore che come medico.”
“E vi sbagliate, perciò, ora io torno al mio studio e ai mie pazienti, voi restate pure qui accanto al marchese così lo potrete rassicurare quando si sveglierà e soprattutto calmarlo quando perderà la pazienza scoprendo che suo cugino è partito da solo per Torino.”
Due giorni prima
“Ludovico è deciso a tornare a Torino assieme a voi e non vuole ascoltare purtroppo né i vostri ragionamenti né le mie suppliche.”
“Lo so, ma a Torino in molti credono che Ludovico sia morto e, se tornasse adesso, portandosi dietro le copie del suo scritto sulla chiusura del Conciliatore, io credo che lo arresterebbero subito.”
“Gliel’ho spiegato anche io, ma Ludovico sostiene che gli resta ormai poco da vivere e che questo poco lo vuole spendere lottando per la nostra libertà.”
“Certo, ma possibile che neppure una donna graziosa e innamorata come voi lo possa convincere a restare qui a Parigi?”
“Sapete bene che ho provato in tutti i modi a convincerlo…” Dopo aver pronunciato quelle parole Carlotta si era ricordata che prima aveva cercato di far comprendere a Ludovico come potesse fare la stessa fine del suo amico Silvio Pellico arrestato nell’ottobre dell’anno precedente dalla polizia austriaca, poi, vedendo che neppure il timore del carcere funzionava, Carlotta (o meglio Carlottina come la chiamava Ludovico perché aveva quindici anni meno di lui) gli aveva infilato le mani sotto la camicia e aveva cercato di persuaderlo con i gesti più che con le parole.
Neppure le sue carezze, però, avevano funzionato e così, alla fine, con la complicità di sir Charles Morgan, medico e scrittore, lei ed Emanuele avevano concordato un piano alternativo: somministrare a Ludovico una dose di oppio non pericolosa, ma abbastanza forte da farlo dormire il tempo necessario a far partire suo cugino per Torino.
Al risveglio Ludovico avrebbe impiegato qualche ora a riprendersi dal senso di stordimento e, una volta divenuto consapevole della situazione, Emanuele sarebbe già stato in viaggio con un anticipo sul cugino di almeno una quindicina di ore.
La sera prima
“Ludovico non credi che a quest’ora dovresti prendere le tue medicine e poi andare a riposare?”
“Apprezzo, Carlotta, che tu sia un’infermiera tanto premurosa, ma, non devi stare sempre in pensiero per me, io, da quando sono giunto a Parigi, mi sento meglio. Io l’ho sempre pensato che è l’aria di una città chiusa e provinciale come Torino a far male ai miei polmoni! Non sarò mai grato abbastanza a mio cugino per avermi convinto a partire, anche se mi dispiace di essere venuto meno alla promessa che avevo fatto ai miei nipoti, di occuparmi di loro dopo la morte del padre.”
“Hai dovuto fare una scelta, Ludovico, e io penso che i tuoi nipoti quando saranno più grandi la capiranno.”
“Non dovranno aspettare così tanto perché finalmente anche a Torino qualcosa si sta muovendo e presto io li potrò riabbracciare.”
“Io sarei prudente al tuo posto, a Torino in molti credono che tu sia morto oppure che sia all’estero a curarti e gli austriaci sembra che per ora non abbiano messo nessuna spia sulle tue tracce, vuoi dargli tu l’occasione per farlo?” Mentre parlava Carlotta aveva pensato: “Nella vita reale sono proprio una pessima attrice, se non sono neppure capace di dire una bugia a Ludovico per convincerlo a prendere le sue medicine, le prende senza fiatare tutte le sere più o meno verso quest’ora e proprio stasera deve mettersi a fare conversazione!”
La notte precedente
Alla fine Carlotta, quando Ludovico era stato colto da una violenta crisi di tosse, era riuscita a convincerlo che era proprio giunta l’ora di prendere le sue medicine e infilarsi a letto.
Prima di crollare definitivamente Ludovico aveva, però, afferrato una mano di Carlotta e le aveva chiesto: “Ma cosa mi hai dato? Lo sai che mio padre non riconoscerebbe mai la validità del nostro matrimonio? E poi io credevo che tu mi amassi… perché mi hai tradito anche tu?”
“Io ti amo, Ludovico, perdonami… domani ti spiegherò tutto… ora dormi e non avere paura… vedrai che non ti accadrà nulla…”
Il mattino del 14 febbraio
Carlotta si era svegliata presto dopo una notte di sonni inquieti. Era sempre stata convinta che l’oppio fosse una sostanza pericolosa e anche se sapeva di aver agito in buona fede temeva lo stesso che il fisico di Ludovico, indebolito dalla tisi, non fosse in grado di reggere la dose che lei gli aveva somministrato. Effettivamente Ludovico dormiva ancora, ma il suo respiro era così lieve da essere appena percettibile. Carlotta era rimasta ferma ad ascoltarlo per vedere se era regolare o subiva delle interruzioni, poi gli aveva appoggiato una mano sul petto e aveva sentito che il suo cuore batteva ancora.
Non si era, però, tranquillizzata, perché sua sorella molti anni prima era morta di mattina all’improvviso e lei non aveva potuto fare nulla per aiutarla.
Alla fine, si era alzata dal letto con circospezione, si era infilata una vestaglia e aveva suonato il campanello. All’apparire di una domestica, aveva cercato di mostrarsi tranquilla e si era limitata a dirle: “Vai a chiamare il dottor Morgan.”


La chiusura del cerchio
di Laura Ganci
Giacomo non aveva la ben che minima idea di cosa avrebbe potuto regalare a Caterina per la festa degli innamorati con quei pochi soldi che aveva nel portafogli, scrutava le vetrine delle luminose gioiellerie del centro cercando di mascherare la faccia perplessa che invece il riflesso dei vetri scintillanti, gli rimetteva ad ogni passo. Anche il più semplice anellino lì costava una fortuna.
Una commessa ben vestita con una minigonna blu scura, che rientrava dalla sua pausa pranzo, lo scrutò con aria quasi spaventata, forse lo aveva scambiato per un ladro intento in una perlustrazione preventiva di un futuro colpo. Senza neanche guardarlo in faccia quindi, s’infilò di corsa all’interno, facendo cenni quasi disperati al titolare di aprire alla svelta il portone blindato.
Giacomo la guardò con sufficienza, ma chi si credeva di essere quella lì? Ragazzi però che gambe!
S’infilò i pugni in tasca e continuò per la sua strada, abbassò gli occhi e notò le punte impolverate delle modeste scarpe che calzava, pensò che avrebbe dovuto cambiarle uno di questi giorni, erano rovinate e fuori moda. Un giorno avrebbe avuto i soldi per fare quello che avrebbe voluto, pensò positivo, comprarsi quegli stivali di pelle che aveva sempre desiderato e regalare a Caterina quel gioiello che avevano visto insieme nella vetrina di ORO BLU, il più noto gioielliere della città: un anello d’oro con un rubino incastonato al centro. Decise che quel giorno era arrivato, era oggi, il giorno di San Valentino.
Giacomo percorse tutto il viale alberato, non erano stati potati quell’anno, e gli alberi avevano l’aspetto malato, forse anche a causa dello smog del centro. Un pensiero strano gli balenò in testa, chissà se la prossima primavera sarebbero tornati belli e rigogliosi quegli alberi! Pieni di foglie e fiorellini bianchi!
E chissà se anche la storia con Caterina sarebbe riuscita a superare quella crisi. Caterina sembrava non amarlo più come una volta, dopo essere stati insieme per quattro mesi, lei quando era con lui appariva nervosa, distante, a volte scontrosa, gli rinfacciava spesso la sua superficialità e la sua inattività, spesso lo trattava male, ma lui la amava, e quell’anello sarebbe stato il suo riscatto nella vita. San Valentino era il giorno perfetto per dimostrarle tutto: il suo amore e la sua concretezza.
Meditò la rapina in una farmacia per avere i soldi, ma si picchiò sulla testa per averlo solo pensato, non sarebbe mai riuscito a minacciare una persona in modo convincente per fargli sganciare il denaro, e poi con la sfortuna che si ritrovava addosso, ci sarebbe stata la solita vecchietta impicciona che avrebbe azionato uno di quei gingilli al collo per l’ auto - soccorso e la polizia gli sarebbe stato subito addosso.
Un prestito da mamma non era un’idea fattibile. Mamma era una baby pensionata della pubblica amministrazione, mille euro per lei non sarebbero stati una somma difficile da reperire per darli al suo secondogenito, ma in cambio di cosa? Si disse però, promesse improponibili e un sermone del tipo “Caterina non è la donna della tua vita” o “Caterina non è quella che fa per te” o “Mamma sa chi ti farebbe felice” ecc. Valeva tutto questo l’amore di Caterina e il suo gioiello? Forse sì, ammise Giacomo ma non se la sentì di provare, dopotutto gli bruciava maledettamente chiedere aiuto a mamma, non lo aveva mai fatto, neanche per riuscire a finire gli studi all’Università, perché avrebbe voluto farlo adesso? Scartò definitivamente l’idea “MAMMA”.
Papà era ancora peggiore, divorziato da mamma da un decennio, era un bighellone senza arte né parte, viveva come un mantenuto con una donna dell’Est, forse russa o bielorussa, non sapeva di preciso, proprio a due isolati da lì. Giacomo non l’aveva mai conosciuta, era una donna d’affari, una di quelle manager dell’Est emergente, capaci di conquistare il mondo, una donna decisa e risoluta, ferma negli affari ma terribilmente instabile negli affetti. Sapeva, infatti, che era stata lasciata da ben due mariti e che nella vita aveva conosciuto solo uomini che l’avevano sfruttata per molti anni, papà non era di meno. Chiedere quindi un prestito a papà sarebbe stato inutile, al massimo sarebbe stato capace di sottrarre un gioiello a caso della russa per “regalarlo” al suo figliolo in difficoltà amorose. Sapere poi che con Caterina non c’era più il feeling di una volta, per papà sarebbe stato uno spasso enorme, infatti, lui come tanti altri uomini non riuscivano a concepire nella sua mente, l’idea di sacrificarsi per amore, se una donna non ti vuole, non perdere tempo era il suo motto, cercatene un’altra magari brava a letto.
Scartò definitivamente l’idea del prestito “famigliare”, Maurizio suo fratello maggiore, non era in grado di procurargli una somma del genere, mille euro erano sicuramente troppi per un uomo che viveva con il solo stipendio di ricercatore scientifico all’Università di Pisa.
Come fare quindi?
Per procurarsi una somma del genere non c’erano opportunità, avrebbe dovuto per forza delinquere, non ci si procura denaro se non ci si sporca le mani, un lavoro solo occasionale pensò, uno di quelli che puoi gestire quando vuoi e che ti permetta di guadagnare rapidamente. Lo spaccio di stupefacenti pensò ad esempio, sarebbe stato perfetto.
Conosceva un tizio che spacciava su al nord, al quartiere che i cronisti avevano battezzato “La cittadella”, si procurava pastiglie di anfetamine con impresso su, lo stemma del Gran Ducato, e le rivendeva giù al quartiere “Marbella” dei figli di papà.
Giacomo sapeva, dove procurasi il numero di telefono del tizio, pensieri strani gli barcamenavano nel cervello. Sul bus urbano che aveva preso al volo senza biglietto, Giacomo si sedette in fondo, con accanto ad un uomo di colore, sui cinquant’anni, vestito di marrone scuro, con giaccone e cravatta, e con mano stretta tra le ginocchia una valigetta 24 ore, lucidissima ed elegante. Giacomo non poté fare a meno di fissarla. Che cosa poteva mai contenere quella valigetta?
“Vuoi sapere cosa c’è dentro ragazzo vero”? Gli chiese all’improvviso l’uomo in un leggero accento francese.
“No, no..” rispose Giacomo turbato e confuso, per l’imbarazzo era un po’ arrossito sulle guance
“ E invece vuoi sapere cosa c’è dentro ..” insistette l’uomo di colore “ammettilo stai morendo dalla voglia di guardarci dentro”
“No, le dico di no … non mi permetterei mai …” adesso Giacomo fu preso da timore, forse quell’uomo era un killer e dentro quella 24 ore trafugava la sua arma, brividi di freddo lo percorsero sulla schiena, nonostante fuori ci fossero quasi 4 gradi sopra lo zero, e sul bus non era acceso il riscaldamento, iniziò a sudare.
L’uomo di colore quasi gli avesse letto i pensieri esclamò con un risolino “credi che ci sia un’arma dentro?”
La testa di Giacomo si mosse senza il suo volere, annuì e disse sì.
“Non lo dirò a nessuno!" farfugliò non scandendo bene le parole.
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata, due donne imbacuccate per il freddo si girarono in direzione degli ultimi sedili ma vedendo un negro, scossero la testa con indifferenza.
“Cosa pensi che sia? Una pistola o un fucile?” chiese poi ritornando serio
“Non so, ” rispose stavolta pronto Giacomo, quella risata gli aveva dato il tempo di riprendere fiato, avvertì il suo cuore ritornare a battere, non era ancora morto.
“Forse una pistola, la valigetta è piccola”.
“Sei un bravo ragazzo” continuò l’uomo “ non sai nulla sulla malavita e sulle armi, non sai che un fucile XXXXX ha le dimensioni di un libro ?" O di una scatola di cereali? “
Giacomo ripensò al suo proposito di prima, lo spaccio di stupefacenti, forse l’uomo di colore aveva ragione non sapeva nulla di quel mondo, Caterina avrebbe dovuto rassegnarsi, lui non avrebbe mai avuto mille euro per quell’anello.
L’autobus si fermò, alcuni passeggeri scesero, Giacomo pensò di fare altrettanto ma la paura lo aveva quasi pietrificato, non fece in tempo, le porte automatiche si chiusero prima che poté spostare il peso in avanti per alzarsi dal sedile. L’uomo di colore lo fissò divertito.
Trascorsero vari minuti di silenzio tra loro, nessuno forse sapeva di cosa parlare, ma Giacomo non riusciva a staccare gli occhi dalla valigetta, e l’uomo lo sapeva.
La prossima fermata sarebbe stata a meno di un chilometro, Giacomo decise di scendere, non riusciva più a controllarsi, avrebbe fatto dieci, venti chilometri a piedi piuttosto di trovarsi lì, ma quel chilometro era interminabile.
All’improvviso una frenata brusca interruppe momentaneamente il flusso dei suoi pensieri, una voce di donna urlava disperata “E’ morto!" E’ morto! L’ha messo sotto il bus! “
L’autista frastornato aprì la porta automatica ma non riuscì a scendere, una donna e un uomo con il passamontagna erano sbucati dal nulla e brandendo due pistole urlavano “Questa è una rapina! "Questa è una rapina!”
Sull’autobus erano rimaste poche persone, le due donne del sedile davanti a Giacomo, quattro uomini di quaranta anni all’incirca e loro due, Giacomo e il misterioso uomo di colore.
I due malviventi erano nervosi, spingevano, brandivano con spavalderia le armi davanti agli atterriti passeggeri che prontamente davano loro catenine d’oro, orologi o semplicemente contanti dai loro portafogli, l’autista che era stato evidentemente ingannato cercò di reagire ma l’uomo mascherato gli sferrò un pugno in pieno viso, la donna nel frattempo arrivò minacciosa davanti a Giacomo e all’uomo di colore.
“datemi tutto quello che avete, altrimenti vi ammazzo” urlava la donna.
Giacomo cercò in tasca, prese il portafogli e lo diete riluttante alla donna, che schifata lo buttò dietro ai sedili, conteneva all’incirca venti euro.
“Tu negro! Dammi il portafogli!”
L’uomo non reagì, avrebbe potuto farlo, era molto alto e robusto e forse pesava il doppio della ladra, gli porse l’orologio d’oro firmato sganciandolo dal polso con flemma, la donna s’innervosì, forse era sotto l’effetto di droghe.
“ e muoviti negro dei miei stivali! “ lo ingiuriò
L’uomo le porse anche un anello e del contante, la donna divenne eccitata all’idea di quell’insolito bottino, non vide la valigetta nascosta tra i sedili.
“Guarda !” urlò al complice “Con questo ci facciamo i soldi!" “ gli disse mostrando l’orologio
L’uomo la guardò compiaciuto poi, la esortò a scendere di corsa erano rimasti molto tempo su quell’autobus, lei gli annuì e gli disse “sì, ti raggiungo, devo fare però prima una cosa …”.
Lui le rispose “Sì, ma muoviti fallo alla svelta”.
La donna si avvicinò nuovamente a Giacomo e all’uomo di colore e con precisione puntò l’arma contro i due.
“Cosa fai?”le urlò Giacomo “Vuoi ammazzarci? Hai avuto quello che volevi no? “
La donna non rispose ma premette il grilletto, un colpo solo, solo uno.
Giacomo credete di invecchiare di dieci anni, era stato solo un colpo di scena della donna, non aveva ucciso nessuno, si sbagliava, si volse a guardare l’uomo di colore e si accorse che era ferito, il proiettile lo aveva raggiunto alla gola.
“Perché?” gli gridò Giacomo
“Sono razzista” gli rispose la donna e come era arrivata, sparì
L’uomo di colore perdeva molto sangue, Giacomo che nonostante tutto aveva anche studiato medicina, chiamò con il cellulare di un passante l’autoambulanza, riuscì a farlo sdraiare, ma la ferita era molto seria, la fasciò alle belle è meglio, l’uomo di colore lo afferrò per la giacca, non riusciva a parlare ma voleva farlo lo stesso.
“Mi chiamo David Nicol … sono francese … ti prego dammi un foglio e una penna”.
“Vuoi scrivere?” gli chiese Giacomo ma era una domanda inutile, David non poteva rispondergli. Giacomo corse al posto di guida dell’autobus e strappò da un blocco in cui l’autista aveva segnato degli orari, una pagina bianca e come penna usò una matita per gli occhi che una delle signore sedute davanti a lui, gli porse avendo sentito tutto.
David Nicol iniziò a scrivere, era molto debole, ma la sua grande mano nera aveva ancora la forza di farlo.
Scrisse alcune frasi con grafia traballante, chiese a Giacomo come si chiamasse, lui gli rispose, ma non riusciva a imprecare del ritardo dei medici.
“Basta David!” gli urlò Giacomo, “Stai fermo, la ferita non è grave ti salverai, non muoverti”.
David Nicol lo afferrò dal giubbotto, con una voce flebile flebile e un sorriso gli mormorò “Non sei bravo a mentire” e reclinando il capo spirò.
I paramedici e il medico del 118 appena arrivati si limitarono a certificarne il decesso, non potevano fare altrimenti, la ferita era troppa profonda, anzi tutti e tre i sanitari si meravigliarono di come avesse potuto scrivere in un quadro fisiologico così grave.
A Giacomo scesero due lacrime che pulì con la manica del giubbotto intriso di sangue di David, anche se era un killer gli era simpatico quell’uomo!
Giacomo aprì il foglio e lesse le righe che David gli aveva lasciato:
Mi chiamo David Nicol
Sono francese e lavoro per la RICH & FISCHS, sono un rappresentante di preziosi, nella valigetta che ho nascosto tra i sedili del bus, ci sono 2 milioni di euro in gioielli e oro di mia proprietà, desidero che GIACOMO MiNEGUZZI prenda un gioiello a sua scelta per mia gratitudine.
Giacomo … a mia moglie Beatrice che la amo e che la amerò sempre
Segue data e firma DAVID NICOL
Giorno degli innamorati.
Giacomo non riusciva a credere a cosa leggeva, risalì sull’autobus vuoto e rovistò tra gli ultimi sedili, la valigetta nera e lucida era ancora lì, nessuno si era accorto di quella anomalia, si sedette e, appoggiata alle ginocchia fece scattare lentamente, quasi che i suoi movimenti potessero far scattare un detonatore, la combinazione della chiusura.
Dentro, tra rotoli di stoffa di velluto rossa, c’erano collane, orecchini e anelli, più tre piccoli lingotti di oro purissimo.
Giacomo si mise le mani tra i capelli cosa doveva fare adesso? Prendere un gioiello come gli aveva scritto David? O prenderli tutti incolpando della loro scomparsa ai due rapinatori?
La ragione gli diceva che con quei gioielli avrebbe rivoluzionato la sua vita, ma il cuore e la coscienza però non sarebbero mai stati a posto per il resto dei suoi giorni, cosa fare quindi? Rotolò la stoffa con gli anelli e ne scelse uno, con un grande rubino sangue di piccione dal taglio ottagonale, richiuse gli altri e si avviò verso la caserma dei carabinieri.
David Nicol aveva ragione non sarebbe stato mai un vero criminale, non ne aveva la stoffa e neanche la testa.
Baciò l’anello e se lo mise in tasca, si avviò a piedi sul ponte ormai si era fatta sera, il sole stava tramontando, l’aria era gelida quasi che il cielo avesse in serbo per la nottata di nevicare.
Giunse sotto le finestre di Caterina, erano tutte e due illuminate, non suonò subito, si osservò i vestiti sporchi non aveva avuto il tempo di cambiarsi d’abito la sua casa era troppo lontana a piedi dalla caserma dei carabinieri e le procedure della denuncia erano andate per le lunghe.
Caterina rideva, una risata piena e travolgente, Giacomo la sentiva anche da fuori, sorrise anche lui, era stata una giornata pesante, immaginò la sua felicità alla vista dell’anello e la sua voce cristallina che gli sussurrava finalmente TI AMO, decise ancora di assaporare quell’attimo, Caterina rideva sempre, forse era al telefono.
“Sto aspettando per cretino di Giacomo, no ma figurati … si … avrà comprato il solito pupazzetto di peluche o una tazza con dentro i cioccolatini al liquore che io tra parentesi odio, li butto sempre quando me li porta, cosa crede? Che li mangi? A mangiarli a quest’ora sarei una grassona! Certo carissima … ci sentiamo … è San Valentino … certo che scopo stasera cosa credi? Nonostante tutto quel cretino a letto ci sa fare … è l’unica qualità che ha … poi del resto se non ci fosse Federico che ogni tanto mi copre le mie spesucce non saprei come fare … su cara si fa tardi … devo ancora depilarmi le gambe … ciao ti chiamo io domani e ti racconto …”
Giacomo restò come paralizzata cosa aveva sentito? Caterina lo considerava un cretino! Stava con lui solo per il sesso! Si vedeva con Federico il suo migliore amico!
Non riuscì a muoversi si sedette sui tre gradini e si mise le mani tra i capelli e poi nelle tasche del giubbotto, trovò l’anello e la ricevuta dei carabinieri, la copia della denuncia e il numero di telefono della famiglia di David Nicol che gli avevano dato.
Prese il telefono e digitò il numero e una voce di donna disperata rispose con accento francese: allo evidentemente l’avevano già avvertita.
“Signora Nicol mi chiamo Giacomo sono stato con David fino all’ultimo … “ la donna non lo interruppe “volevo che sapesse che David era un uomo meraviglioso e che l’ha amata sempre, fino all’ultimo, che non si sarebbe mai separato da lei e che continuerà ad amarla sempre anche dal cielo … “ disse tutto questo in un sol fiato.
“Grazie” mormorò la donna “apprezzo quello che ha fatto per David lei è una persona gentile”
“ Signora …”
Oui … “
“David voleva anche dirle buon San Valentino”.
“ Grazie ancora” sussurrò la donna dominando le lacrime “buon San Valentino anche a lei”.
Giacomo chiuse la comunicazione, rimase seduto sui gradini e preso tra le mani l’anello con il rubino, lo girò tra le mani gelate. Chiuse gli occhi e appoggiò il mento nell’incavo del collo.
La neve stava già scendendo.

1 commento:

  1. Ho letto i vari racconti...e devo dire che non comprendo in alcuni casi la loro esclusione dalla finale!! Magari alcuni dovrebbero essere rieditati (il mio anche)...ma in linea di massima tutti meritavano un'occasione!

    I miei preferiti: La Chiusura del Cerchio di Laura Ganci e Una Notte Mozzafiato di Joy Trent! Complimenti alle autrici...storie che mi hanno fatto leggere sino all'ultima riga! ;)

    RispondiElimina